Sulla pretesa discrezionalità del giudice, in caso di chiamata del terzo ad istanza del convenuto

AutoreGiampiero Balena
Pagine1785-1792
Giampiero Balena
Sulla pretesa discrezionalità del giudice,
in caso di chiamata del terzo ad istanza del convenuto
S: 1. Un recente arresto delle Sezioni unite in ordine alla disciplina dell’intervento coatto ad istan-
za del convenuto ed il suo contrasto coll’opinione dominante in dottrina. – 2. Il raronto tra il 2° ed
il 3° comma dell’art. 269 c.p.c. conferma che la chiamata del terzo, da parte del convenuto, prescinde
da una preventiva autorizzazione del giudice. Dalla disciplina della separazione di cause, inoltre, non
può trarsi alcun argomento in favore di una discrezionalità del giudice nel disporre lo spostamento
dell’udienza di prima comparizione. – 3. Cenni sull’intervento coatto del terzo nel processo del lavoro.
Considerazioni conclusive.
1. Una recente decisione delle Sezioni unite, la sentenza 23 febbraio 2010, n.
43091, ha aermato, con riguardo all’art. 269 c.p.c., che il giudice, pur quando il con-
venuto abbia tempestivamente dichiarato, nella propria comparsa di risposta, di voler
chiamare in causa un terzo, chiedendo contestualmente lo spostamento della prima
udienza per poter provvedere alla sua citazione, potrebbe discrezionalmente negare la
ssazione di una nuova udienza, per motivi di economia processuale e di ragionevole
durata del processo.
Per meglio comprendere il senso di tale pronuncia – e nel contempo le ragioni che
m’inducono a dissentire totalmente dal principio enunciato dalla Corte – sembra oppor-
tuno tratteggiare brevemente i contorni della vicenda processuale nella quale s’inserisce.
Disposta (con d.m. 24 febbraio 1994) la liquidazione coatta amministrativa della
S.I.V.A. s.p.a., società partecipata per il 99,99% dall’Ente Nazionale Cellulosa e Carta,
il liquidatore aveva proposto azione di responsabilità nei confronti degli ex amministra-
tori e sindaci per il ristoro delle perdite e dei mancati guadagni derivati al patrimonio
sociale, rispettivamente, dalla cattiva gestione e dagli omessi controlli. Alcuni dei conve-
nuti, all’atto della propria costituzione in giudizio, dichiaravano di voler esercitare azio-
ne di rivalsa o regresso nei confronti di terzi – tra cui lo stesso E.N.C.C., indicato quale
corresponsabile dei danni arrecati alla società – e conseguentemente chiedevano lo spo-
stamento dell’udienza di prima comparizione, ai sensi dell’art. 269 c.p.c.; ma il giudice
istruttore disattendeva – non è dato sapere con quale motivazione – tale richiesta.
Il giudizio di primo grado, proseguito nei confronti del Ministero dell’Economia,
succeduto al disciolto E.N.C.C. (che a sua volta era subentrato, in qualità di assuntore
del concordato fallimentare, al liquidatore della S.I.V.A. s.p.a.), si concludeva con la
condanna in solido dei convenuti al pagamento di quasi 53 miliardi di lire; somma che
veniva poi ridotta in appello a circa 10 miliardi complessivi, peraltro col rigetto di ogni
domanda nei confronti degli ex sindaci.
1 Pubblicata per esteso in Foro it., 2010, I, 1775, con nota critica di C, D, P P e
S, nonché in Riv. dir. proc., 2010, 973, con nota critica di E.F. R.

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