I Poteri dispositivi delle parti: profili di legittimità costituzionale

AutoreAlberto Macchia
Pagine183-191

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    Testo della relazione svolta il 28 aprile 2003 all'incontro di studio organizzato dal C.S.M. sul tema: «Il processo di parti. I edizione».

Se volessimo tentare di racchiudere all'interno di uno slogan il succo dei percorsi tracciati dalla giurisprudenza costituzionale in tema di negozialità 1 e principio dispositivo nel processo penale, potremmo forse dire che l'intrusione all'interno dello sviluppo procedimentale di accordi, negozi processuali, e singoli poteri lato sensu dispositivi in ordine a specifiche tematiche o attività, non equivale affatto a postulare l'adesione del sistema ad un modello di tipo dispositivo. In sostanza, l'eventuale presenza di elementi di disponibilità «nel» processo, non comporta affatto una più generale disponibilità «del» processo, decisamente ripudiata come soluzione costituzionalmente compatibile. Anzi, sul punto la Corte costituzionale è stata ancor più decisa quando ebbe ad affrontare, in tempi ormai remoti, la delicata tematica dei poteri probatori ex officio riservati al giudice del dibattimento dall'art. 507 del codice. Il punto di partenza fu rappresentato da una importante sentenza delle sezioni unite 2, la quale, dissolvendo il contrasto presto insorto in merito ai confini applicativi di una norma che appariva in evidente contrasto rispetto alla configurazione di un modello dispositivo puro in tema di prova, affermò alcuni principi di notevole pregnanza. Da un lato, infatti, le sezioni unite ritennero che il potere del giudice di assunzione, anche di ufficio, di mezzi di prova, ben può essere esercitato anche se si tratti di prove dalle quali le parti siano decadute, dovendosi intendere per prove «nuove» ai sensi dell'art. 507 - così come dell'art. 603, in tema di rinnovazione del dibattimento in appello - tutte quelle precedentemente non disposte, siano esse preesistenti o sopravvenute, conosciute ovvero sconosciute. Sotto altro profilo, puntualizzarono le stesse sezioni unite come tale potere suppletivo non trovasse ostacolo nella circostanza che non vi fosse stata alcuna acquisizione probatoria ad iniziativa delle parti, dato che la locuzione «terminata l'acquisizione delle prove» indicava non il presupposto per l'esercizio del potere del giudice, ma solo il momento dell'istruzione dibattimentale a partire dal quale - nell'ipotesi normale in cui tali acquisizioni vi fossero state - poteva avvenire l'assunzione delle nuove prove. Tale sentenza, indubbiamente «forte» sul piano dei principi e di rilevantissima portata pratica, ricevette, però, una certa resistenza da parte di quanti - forse schiavi di una visione accusatoria di tipo «civilistico», per la quale il processo penale doveva diventare sede di risoluzione di un conflitto tra parti, all'interno del quale al giudice si sarebbe dovuto affidare un compito eminentemente arbitrale, di garante del rispetto delle regole di una «corretta» tenzone - ritenevano di dover configurare il potere integrativo del giudice in tema di prova come una attribuzione del tutto eccezionale, da configurare alla stregua di intervento meramente «caudatorio» rispetto all'attività delle parti. Ma una simile prospettiva venne con fermezza dissolta dalla Corte costituzionale, la quale espressamente escluse la possibilità di individuare nel sistema, come frutto della scelta accusatoria, l'esistenza di «un principio dispositivo in materia di prova». Anzitutto - osservò la Corte - sarebbe palesemente «contrario ai principi costituzionali di legalità e di obbligatorietà dell'azione concepire come disponibile la tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale»; donde la mancata previsione di procedure nelle quali la concorde richiesta delle parti assuma portata vincolante per il giudice quanto al merito della decisione: epilogo, questo, che, secondo la nota sentenza n. 313 del 1990 3, non scaturirebbe neppure dalla applicazione della pena su richiesta delle parti. Ma un principio dispositivo - ha affermato la Corte - non potrebbe dirsi «esistente neanche sul piano probatorio, perché ciò significherebbe rendere disponibile, indirettamente la res iudicanda». Tant'è, esemplificò la Corte, che nel giudizio abbreviato - all'epoca fondato sull'accordo delle parti in ordine alle prove utilizzabili - tale accordo non vincolava il giudice in ordine alla loro concludenza, ed anzi non poteva neppure essere interpretato come assolutamente preclusivo di integrazioni probatorie eventualmente necessarie, «pena la sua incompatibilità - già affermata con le sentenze n. 92 del 1992 e n. 56 del 1993 - coi principi costituzionali». Ma l'assunzione di un principio dispositivo in materia di prova - disse ancora la Corte - non trovava riscontro nella disciplina positiva neppure con riferimento al giudizio ordinario, molti essendo al riguardo le disposizioni che danno spazio all'intervento anche officioso del giudice. In linea, dunque, con l'esigenza di eliminare le disuguaglianze di fatto - imposta dall'art. 3, secondo comma, della Costituzione - il legislatore del codice ha così coerentemente ritenuto che «la "parità delle armi" delle parti, normativamente enunciata, può talvolta non trovare concreta verifica nella realtà effettuale, sì che il fine della giustizia della decisione può richiedere un intervento riequilibratore del giudice atto a supplire alle carenze di taluna di esse, così evitando assoluzioni o condanne immeritate». L'attribuzione di un potere di controllo e di integrazione probatoria al giudice del dibattimento - concluse la Corte - non soltanto si presenta coerente con la delega, ma avrebbe rinvenuto, addirittura, «un fondamento maggiore», giacché «i principi di legalità ed uguaglianza - di cui quello di obbligatorietà è strumento - esigono che il giudice sia messo in grado di porre rimedio anche alle negligenze ed inerzie» tanto del pubblico ministero che del difensore. Da qui l'assunto per il quale una interpretazione diversa da quella data all'art. 507 dalle sezioni unite, e che la Corte ebbe a fare propria, avrebbe non soltanto violato la direttiva 73 della legge-delega, ma si sarebbe posta in contrasto anche con i principi costituzionali innanzi richiamati: dunque, una sentenza interpretativa di rigetto nella quale si indicava - come è prassi in queste formule - l'unica soluzione ermeneutica costituzionalmente compatibile (Corte cost., sentenza n. 111 del 1993) 4. Ma una sentenza anche, a me sembra, che si spingeva al di là di una semplice questione interpretativa. Alla stregua dei parametri evocati, ed alla luce della «copertura costituzionale» offerta al potere di supplenza probatoria doverosamente da assegnare al giudice, pare possibile concludere che, quantomeno alla luce Page 184 della ricostruzione del sistema offerto dalla Corte, la norma così «imprudentemente» impugnata dalle numerose ordinanze di rimessione, risulti essere non soltanto costituzionalmente conformata, ma addirittura sarebbe - ed è questo l'aspetto che a me pare di maggior risalto - costituzionalmente imposta. Non solamente, quindi, il principio dispositivo non sarebbe presente nel sistema processuale, così come positivamente disciplinato, ma addirittura presupporrebbe, per un suo ipotetico «innesto» nel corpo normativo, un decisivo mutamento di quegli stessi principi costituzionali che la Corte ha posto a fondamento del decisum.

Certo, la decisione che abbiamo appena ricordato risentiva della particolare «temperie» di quegli anni: si era infatti a ridosso delle «famose» sentenze del 1992 (in particolare, le sentenze nn. 254 e 255), e delle innovazioni, tutt'altro che evanescenti, apportate dal D.L. n. 306 del 1992, emanato, come tutti ricordano, sull'onde delle emozioni scaturite dalla strage di Capaci. Era, dunque, il periodo in cui la Corte costituzionale, con una certa enfasi, riaffermava il principio che il «fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità» e coniava, a corollario di questo, l'altro contestatissimo principio di «non dispersione degli elementi di prova», che per molti tutto poteva essere, ma che certo non poteva rappresentare un canone di diretta derivazione costituzionale. Le reazioni, è noto, furono vivaci: si parlò di «anamorfosi del sistema» 5, di sostanziale tradimento dello spirito della riforma, di regressione a meccanismi processuali che svilivano il contraddittorio; insomma, mentre sul principio dispositivo, quantomeno nella sua configurazione «pura», non si insistette più di tanto, era sulle regole di formazione della prova e, in particolare, sul contraddittorio che si concentrarono le maggiori attenzioni critiche, anche - e soprattutto - sul versante dei relativi riflessi costituzionali. Soddisfatte simili istanze al livello «più alto», attraverso la modifica dell'art. 111 Cost., ne deriva, a me sembra, che le affermazioni poste a base della citata sentenza della Corte in tema di potere probatorio suppletivo del giudice conservino, anche alla luce del nuovo parametro, piena attualità, non solo perché fondate su valori costituzionali rimasti inalterati (se non, addirittura, esaltati), ma, anche, perché - al di là dei fiumi di inchiostro che sono stati impiegati per spiegarne l'essenza (o la «inessenza») del concetto - il paradigma del processo «giusto» 6 deve necessariamente misurarsi con le peculiarità (costituzionalmente additate) che devono caratterizzare il «giusto processo penale». In questa prospettiva, forse, si potrebbe arrivare a concludere che la totale espulsione del giudice dal circuito probatorio, nel modello ordinario di giudizio, equivarrebbe a vanificare qualsiasi valore denotativo al nuovo attributo processuale, giacché «giusto» finirebbe per risultare il processo che si limita a regolare il conflitto tra le parti, ma non ad assicurare il perseguimento delle finalità - pubbliche ed indisponibili - cui esso tende.

Ciò non toglie, però, che la gamma delle alternative processuali non è impermeabile alle scelte - unilaterali o bilaterali...

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