Política e Diritto

AutoreAntonio Incampo
Pagine37-57
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2. POLITICA E DIRITTO
2.0. Il diritto è sia filosofia, sia politica. La filosofia è scienza
dell’universale, diversamente dalla politica, rivolta invece al parti-
colare. La prima è scienza della possibilità dei fenomeni, la secon-
da dei fenomeni solo possibili. Con lo studio della possibilità dei
fenomeni la filosofia guadagna l’universale del diritto. D’altronde,
analizzare la possibilità – non quel che è solo possibile – significa
sapere fino a che punto il possibile è meramente possibile o impos-
sibile, oppure inevitabilmente possibile e necessario.
Ma il diritto è anche il risultato di decisioni particolari del giu-
rista, e dunque anche politica.
La filosofia non è politica. C’è, tuttavia, un senso in cui la po-
litica ha a che fare con la filosofia. Almeno come oggetto di
quest’ultima. La politica, infatti, è un momento inevitabile del pro-
cesso giuridico. Non è pensabile il diritto senza la politica. In que-
sto modo, però, la filosofia è di nuovo scienza dell’universale. Ve-
diamone i passaggi.
2.1. L’ordinamento giuridico non è un sistema statico. Non si
dà una volta per tutte come l’aritmetica peaniana, o quel sistema
particolarissimo dell’Essere di Parmenide, sempre identico a se
stesso, senza differenze al suo interno, uguale ovunque lo si guar-
di, con ogni punto fissamente equidistante dal centro. No. L’ordi-
namento giuridico è una realtà continuamente in movimento. Non
ama la fissità. Né può amarla. Esso è piuttosto una concatenazione
tendenzialmente infinita di atti giuridici. È, soprattutto, dýnamis,
azione, attività. Probabilmente il contrario dell’Essere parmenideo.
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Mi limito a due grandi àmbiti dell’attività giuridica. Da un lato
vi sono atti che creano nuovo diritto oltre il diritto che c’è,
dall’altro atti che producono diritto dal diritto che c’è. I primi sono
atti principalmente di legislazione; gli altri di giurisdizione. Il legisla-
tore fa le leggi. Il giudice no. Con la giurisdizione non si va oltre il
diritto vigente. L’attività del giudice dà vita a norme per lo più indivi-
duali (le sentenze) che discendono dall’applicazione delle leggi.
Queste due sfere della creazione giuridica sono strutturalmente
distinte tra loro. Non si può confondere l’una con l’altra12. Nel-
l’attività legislativa prevalgono giudizi di valore. Scopo della legi-
slazione è soddisfare l’insistente bisogno di regole negli spazi giu-
ridicamente vuoti della realtà sociale. Si legifera a causa dell’as-
senza e non per la presenza di regole. Ciò che, però, si chiede al le-
gislatore è che le sue leggi siano giuste. Sarebbe meglio un mondo
senza regole, piuttosto che un regno regolato da diavoli. Per questo
nella legislazione contano, come ho detto, i giudizi di valore.
Diversa è la giurisdizione. L’attività del giudice non si fonda
sulla giustizia delle leggi, semmai sulla loro validità nell’ordina-
mento. In poche parole, essa dipende soltanto dalle leggi, senza
attendere che siano giuste o meno. Se il legislatore pone [setzen] le
leggi, il giudice le presuppone [voraussetzen]. Così la giurisdizio-
ne è iurisdictio, ossia “dire il diritto”.
Si prenda la famosa legge n. 194 (22 maggio 1978) “sull’inter-
ruzione volontaria della gravidanza”. Sono possibili due giudizi:
i) Un giudizio di valore: “La legge n. 194 è giusta”;
ii) Un giudizio di validità: “La legge n. 194 è valida”.
È evidente che il primo di questi giudizi spetti al legislatore; il
secondo, invece, al giudice. Il giudice è chiamato ad applicare le
leggi, non a farle.
12 Lo spunto e l’articolazione della mia analisi sono suggeriti dalle conside-
razioni di Norberto Bobbio in Contributi ad un dizionario giuridico, 1994, spe-
cialmente p. 284.

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