La perequazione urbanistica e la rilevanza delle qualità e delle funzioni nella disciplina dei suoli urbani

AutoreVincenzo Colonna
Pagine37-50

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@1. Il tentativo di superare le distorsioni determinate dalla attribuzione di una destinazione d’uso ai suoli da parte degli strumenti urbanistici generali

Il dibattito attorno al tema della perequazione ha preso spunto dalla presentazione a Roma, in occasione dell’VIII Congresso nazionale dell’Istituto Nazionale di Urbanistica tenutosi nel dicembre del 1960, di un articolato progetto di legge denominato “Codice dell’urbanistica”1. La perequazione veniva presentata come uno strumento, da utilizzare all’interno dei comparti, mediante il quale «le particelle cui è attribuito un volume effettivo inferiore a quello teorico medio, riceveranno, a perequazione, un compenso di diritto di volume da parte delle particelle cui è stato attribuito valore maggiore di quello teorico medio». La proposta fu accolta con freddezza dai giuristi2, ma non dagli ambienti politici. Nel clima culturale generato da quella proposta, si inserisce ad esempio il progetto di legge urbanistica predisposto da una commissione di studio su incarico del Ministro Fiorentino Sullo3: come è noto, il disegno di legge fu duramente contestato e cadde nel vuoto4. Il fallimento del d.d.l. Sullo non segnò la fine del dibattito scientifico e politico sul tema5.

L’istituto della perequazione rappresenta comunque la risposta più compiuta che sia stata articolata a fronte di quelle esigenze di eguale trattamento delle proprietà da tempo indicate come obiettivo di un più maturo sistema di pianificazione urbanistica6.

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Non sono peraltro mancate voci critiche7 o semplicemente perplesse e caute8.

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La perequazione urbanistica9 non realizza un’equiparazione tra i valori edificatori dei suoli, né li azzera assumendoli tutti come agricoli, ma si pone l’obiettivo – secondo l’accezione comunemente accolta – di assicurare condizioni di parità di trattamento tra soggetti titolari di aree poste in analoga condizione (di fatto e di diritto), riducendo così le distorsioni determinate dalla rendita (di posizione) che deriva da una scelta di piano10.

@2. Contenuto e funzione del piano regolatore generale

L’adozione e la configurazione di un meccanismo perequativo in sede di elaborazione di un piano regolatore implica l’esatta individuazione della ti-Page 40pologia di aree su cui esso è chiamato ad operare. Si ritiene di delimitare l’ambito di operatività alle aree edificabili, nell’accezione di aree oggettivamente suscettibili di utilizzazione edificatoria; ciò comporta l’esclusione di quelle oggettivamente utilizzabili solo per l’esercizio delle attività agricole o di attività comunque incompatibili con quella edificatoria, nonché delle aree su cui gravano vincoli di inedificabilità derivanti da normative o provvedimenti amministrativi estranei alla materia urbanistica (si pensi ai vincoli funzionali alla tutela di beni o interessi pubblici, quali il patrimonio storico, architettonico ed archeologico, il paesaggio, le coste, le acque, i beni ambientali in genere, ecc.). In altri termini, si ritiene di far ricorso ad una classificazione basata su criteri oggettivi, che prescindono da decisioni urbanistiche pregresse e discrezionali dell’amministrazione. Nel momento in cui ci si pone nella prospettiva di riconoscere e distribuire, in modo equo, una capacità edificatoria, sarebbe contraddittorio limitare l’ambito di operatività della tecnica perequativa alle sole aree già individuate e tipizzate come edificabili da un precedente piano regolatore, poiché si andrebbe, in tal modo, a riproporre - nei medesimi termini e limiti - un’ingiustizia ed un trattamento diseguale a scapito dei proprietari di aree oggettivamente idonee all’edificazione, ma come tali non riconosciute dal piano.

Ciò implica un modo nuovo di concepire e strutturare lo strumento urbanistico generale che, al progetto di sviluppo di un territorio, deve necessariamente far precedere la ricognizione della realtà territoriale esistente in base alla quale è possibile apprezzare le condizioni oggettive (di utilizzazione e di utilizzabilità) delle singole aree e classificarle. A dire il vero, si tratta di un ritorno alla sua antica ispirazione normativa, di recuperare il piano regolatore generale alle funzioni ed ai contenuti ad esso attribuiti, originariamente, dall’art. 7 l. 1150/4211.

In effetti, l’esperienza amministrativa dei piani generali ha ridotto la complessa ed ampia portata del punto n. 2 di tale articolo alla sola zonizzazione del territorio comunale funzionale all’attribuzione, alle singole zone, di una capacità edificatoria o urbanistica; il tutto sulla base di determinazioni discrezionali della pubblica amministrazione che si sono mosse lungo il crinale segnato dalla tipologia delle zone territoriali omogenee prevista dall’art. 2 d.m. 1444/68 e nel rispetto dei «limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi» previsti dall’ottavo comma dell’art. 41 quinquies l. 1150/42 e specificati dal già menzionato decreto ministeriale.

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La zonizzazione operata nella prassi amministrativa dai piani regolatori si è rivelata funzionale all’individuazione di tali limiti e dei rapporti massimi e minimi tra spazi destinati agli insediamenti (residenziali e produttivi) e spazi destinati a dotazioni, impianti, servizi o attività di interesse collettivo (i c.d. standards); a questa esigenza risponde l’individuazione delle zone di tipologia F (quelle destinate ad attrezzature ed impianti di interesse generale), a prescindere da una valutazione in concreto della loro effettiva edificabilità e addirittura a prescindere da una loro effettiva destinazione a servizi pubblici.

Sotto questo profilo, l’esperienza concreta dei vincoli di destinazione impressi dai piani regolatori generali presenta un saldo generalmente negativo: il processo di zonizzazione si è ridotto ad un lavoro di allocazione sul territorio dei vantaggi edificatori e dei carichi urbanistici, indifferente ai requisiti oggettivi delle zone interessate e soprattutto indifferente all’effettività delle destinazioni impresse ed alle conseguenze economiche di quei processi allocativi.

In realtà, se si tengono presenti la portata e la funzione concretamente assegnate dalla prassi alle operazioni riconducibili a quella che, con un’espressione di sintesi, indichiamo come zonizzazione (individuazione della quantità di edificazione ammessa, definizione dei rapporti tra quella esistente e quella ammessa, individuazione dei rapporti tra edificazione e dotazione di servizi o spazi pubblici), se ne ricava l’impressione – come qualcuno ha fatto notare – che quell’attività pianificatoria (la zonizzazione del territorio) tenda piuttosto ad inquadrarsi, con riferimento al ricordato disposto dell’art. 7, comma secondo, n. 2, della legge urbanistica, nell’ambito dell’operazione di “determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona”, obliterando (così, sul piano interpretativo, da rendere necessario identificare quali siano) i tratti ed i caratteri del distinto momento della “precisazione delle zone destinate all’espansione dell’aggregato urbano” (sul piano letterale, la norma congiunge – distinguendoli dunque – i due momenti).

In altri termini, l’art. 7, comma secondo, n. 2, della legge urbanistica sembra riconoscere al piano generale una duplice funzione, entrambe di portata autonoma e specifica: la prima a valenza ricognitiva o accertativa della condizione di fatto del territorio e delle sue caratteristiche oggettive (“divisione in zone del territorio con la precisazione delle zone destinate all’espansione dell’aggregato urbano”); la seconda più propriamente pianificatoria o conformativa riguardante le previsioni urbanistiche di sviluppo del territorio che il piano va ad adottare (“la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona”). Secondo questa lettura, il piano regolatore generale, in quanto progetto, si conferma ancora espressione di irriducibili scelte discrezionali della pubblica amministrazione; ma queste non condizionano, anzi presuppongono una fase di accertamento dello stato di fatto del territorio e di identificazione delle sue caratteristiche oggettive, che non può essere ricondotta a valutazioni puramente discrezionali12.

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@3. La necessaria distinzione tra ricognizione delle condizioni oggettive del territorio e la programmazione delle sue trasformazioni urbanistiche

L’identificazione, condotta sulla base di indici oggettivi, delle aree edificabili, inedificabili, agricole o gravate da vincoli (di natura non urbanistica) di inedificabilità o di destinazione, rappresenta dunque il necessario presupposto per ogni previsione di piano relativa allo sviluppo urbanistico ed alla localizzazione delle varie tipologie di interventi. Il disegno urbano ed il progetto di territorio che si vogliono adottare con l’elaborazione del piano generale devono necessariamente prendere atto delle condizioni di fatto e delle vocazioni oggettive di quel territorio e sono da queste condizionate. L’identificazione delle aree oggettivamente idonee all’edificazione rappresenta un prius (logico, prim’ancora che giuridico) che vincola l’attività in senso stretto del pianificare, vale a dire le operazioni descritte dall’art. 7 della legge ur-Page 43banistica: 1) il dimensionamento complessivo degli interventi edificatori futuri e 2) la individuazione dei caratteri e dei criteri per la loro localizzazione. Una volta identificate le aree edificabili, la discrezionalità della pubblica amministrazione ha modo di esprimersi nei momenti successivi e distinti della determinazione 1) della quantità complessiva di edificazione che si vuole ammettere nel territorio, attribuendo complessivamente a tutte le aree (già individuate e classificate come edificabili) un indice edificatorio e 2) delle...

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