Profili penalistici del rapporto medico-paziente

AutoreCristina Colombo/Maurizio Parisi
Pagine877-882

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@1. Inquadramento storico del rapporto medico-paziente.

Sino a due secoli fa, il medico era colui che assisteva il malato utilizzando i mezzi che aveva a disposizione, con il dichiarato obiettivo, più che di guarirlo, di alleviarne le sofferenze 1.

Il malato era invece il soggetto afflitto dal morbo che si trovava al centro della scena, come catalizzatore della sofferenza, che per recuperare la salute contava più su sè stesso e sulla religione, che non sul medico che lo assisteva. Il problema dell'acquisizione della volontà dell'individuo che si sottoponeva alle cure non si poneva neppure, poiché non era pensabile mettere in discussione l'esplicazione di un'attività professionale, concepita come mero (ma indispensabile) argine alla sofferenza, più che strumento di difesa della vita e della salute. Il medico era dunque colui che stava vicino al malato solo per tentare di alleviare le sue sofferenze, ma non necessariamente per guarirlo (obbligazione di mero mezzo, mai di risultato).

Dalla seconda metà del secolo scorso questo atteggiamento si è modificato, fino a porsi oggi in primo piano la persona del malato e il suo rapporto con il medico rispetto al processo morboso quale esclusivo oggetto di studio dell'azione sanitaria. Tale rapporto interpersonale fondato sulla fiducia e sul consenso trova le proprie basi in quelle condizioni che permettono al medico di operare senza porre in essere un'attività contra legem, offrendo al malato una prestazione limitata dai diritti del paziente e dal rispetto della vita umana. Nella realtà odierna si richiede sempre più dai medici un'informazione minuziosa, sulla natura e le qualità della malattia: il cittadino medio ha ormai raggiunto un livello di cultura tale da non accettare più di essere tenuto all'oscuro su questioni importanti per la sua vita personale e sociale 2.

@2. L'attività medico-chirurgica: nozione.

L'attività medico-chirurgica 3 è un'attività socialmente adeguata volta al miglioramento della salute del paziente. Più precisamente è una prestazione sanitaria posta in essere da un medico abilitato nell'esercizio della sua attività e diretta a favorire le condizioni di vita di un essere umano 4. Si tratterebbe ancora, per il medico, secondo il dettato ripreso dalla dottrina civilistica, di una vera e propria obbligazione di mezzi - non di risultato - sebbene il paziente spesso creda nella possibilità di ottenere sempre un esito favorevole dai trattamenti terapeutici adoperati 5.

Per quanto riguarda invece l'esercizio di questa attività si possono distinguere due ambiti differenti in cui essa si svolge: quello privato - individuato dal rapporto tra il libero-professionista 6 e il malato - e quello pubblico, in cui il medico è dipendente sanitario e perciò svolge una attività alla cui disciplina concorrono anche norme di diritto pubblico. Nel primo caso il medico riveste il ruolo di soggetto con propria autonomia professionale, pertanto libero di decidere se accettare o meno - tenendo sempre conto della specializzazione, delle attrezzature mediche e delle disposizioni di legge - l'incarico del paziente 7. Nel secondo caso, invece, il sanitario è dipendente pubblico quindi «pubblico ufficiale» e come tale obbligato a fornire la prestazione richiesta.

L'inquadramento della qualificazione del medico, in rapporto alle funzioni svolte, consente di percepire già prima facie la complessità dell'attività medica, resa legittima dal consenso di chi, dopo una corretta informazione, si sottopone volontariamente al trattamento medico, e caratterizzata da una serie di interventi, anche diversi, ma accomunati da una costante «ingerenza in quella sfera di beni personali che rende necessaria l'indagine sulla causa che la legittima».

Non bisogna, infatti, dimenticare che gli interventi medico-chirurgici, sebbene finalizzati al miglioramento della salute dei pazienti, sono contraddistinti dall'aleatorietà del risultato, che, se infausto, può comportare una lesione (anche totale e irreversibile) dell'integrità fisica del malato 8. A volte una lesione si dimostra necessaria ai fini di una guarigione (ad es. l'amputazione di una gamba in cancrena per evitare che il processo morboso si estenda alle altre parti del corpo) ed è a fronte di questi problemi che il penalista ha cercato di individuare una cornice di regole in cui inquadrare l'attività medico-chirurgica.

In proposito, si sono formate essenzialmente due correnti di pensiero:

a) una prima orientata sul risultato: giustifica differentemente la liceità dell'intervento chirurgico, a seconda che l'esito di questo sia felice o infausto 9;

b) una seconda orientata sul mezzo: tende a risolvere il problema della «liceità delle lesioni» indipendentemente dall'esito finale dell'intervento terapeutico 10.

a) Gli appartenenti alla prima corrente ritengono che nel caso in cui un intervento chirurgico abbia esito fausto, la non punibilità del medico dipenda dalla atipicità della sua condotta, in quanto l'intervento non potrebbe mai integrare il reato di lesioni per la mancata individuazione dell'oggetto del reato, ritenuto il fondamento della punibilità. Al contrario, se l'esito dell'operazione chirurgica è infausto questi Autori ritengono che non si potrà sostenere la mancanza di tipicità del delitto di lesioni e pertanto la liceità del comportamento del medico dovrà fondarsi su una scriminante che potrà essere tacita o espressa 11.

La distinzione tra esito fausto ed infausto ha, per questa corrente di pensiero, una particolare rilevanza giuridica, escludendo l'applicazione dell'art. 582 c.p. per quegli interventi chirurgici che hanno prodotto un miglioramento alla salute del paziente e, per contro, nel caso di esito infausto, applicando le scriminanti per giustificare l'attività medica rispettosa di tutte le norme deontologiche e tecniche 12.

Questa impostazione di tipo «tradizionale» è stata criticata dalla dottrina tedesca che ha negato l'esistenza dei delitti di lesioni e di omicidio ritenendo che l'intervento medico-chirurgico tenda per sua natura a migliorare la salute delPage 878 paziente. Viene così posto in discussione l'inquadramento che considera il trattamento medico rientrante nella fattispecie di lesioni ed omicidio 13 poiché tale attività è a questi paradigni antitetica, proponendosi di evitare un danno (o un maggior danno) per il bene giuridico. Pertanto, nel caso in cui il medico abbia agito secondo le leges artis e tuttavia la situazione clinica sia andata peggiorando la causa andrà ricercata nei primi stadi della malattia e non nel comportamento del medico.

b) Il secondo filone dottrinale ha impostato il problema in modo differente considerando in primis il grande valore sociale dell'attività. Da un lato si pongono infatti quegli studiosi che fondano la liceità dell'intervento medico su una scriminante tacita 14 ottenuta dall'applicazione del principio dell'adeguatezza sociale o dell'analogia in bonam partem e, dall'altro lato, quelli che giustificano il trattamento medico-chirurgico collegandosi ad una scriminante espressa, di volta in volta indicata nel consenso dell'avente diritto, nell'adempimento del dovere o nello stato di necessità, ritenendo fondamento della liceità della lesione medico-chirurgica una scriminante oggettiva espressa.

Analizzando la prima corrente di pensiero è subito evidente «l'alto valore» che l'attività medico-chirurgica riveste nella nostra società. Il medico non è mai causa del fattore eziologico patogeno, ma «forza efficiente» che si adopera per evitare le conseguenze ulteriori della patologia stessa 15. L'attività medica è quindi socialmente adeguata, priva di qualsiasi elemento di tipicità proprio di qualunque fattispecie delittuosa. La liceità dell'attività medico-chirurgica andrà così ricercata nell'ambito della tipicità e, precisamente, mancando all'attività sanitaria l'elemento tipico proprio di una fattispecie delittuosa. Questi rilievi non sono stati però esenti da critiche, soprattutto da parte della dottrina italiana, che ha evidenziato l'indeterminatezza del concetto di autodeterminazione con riguardo al principio di legalità e di certezza del diritto. Vi è da dire tuttavia a riguardo che proprio uno dei maggiori sostenitori del principio di certezza, NUVOLONE, 16 ha ammesso l'esistenza di limiti taciti al diritto penale, dimostrando la necessità di far spazio a ciò che non è necessariamente normativizzato come può appunto essere l'azione socialmente adeguata.

D'altro canto, vi sono invece quegli studiosi che ritengono l'attività sanitaria «rientrante» nella sfera di tipicità dei delitti di lesione ed omicidio e utilizzano le scriminanti per escludere l'antigiuridicità. In concreto, il trattamento produce una lesione, ma la stessa è da ritenersi lecita se il paziente ha acconsentito all'intervento ovvero se l'intervento era necessario per salvargli la vita. In conclusione, il rapporto medico-paziente 17 si fonderebbe comunque su una serie di condizioni che permettono al sanitario di operare, offrendo al malato un'attività legittima e consapevole dei limiti derivanti dai diritti e dal rispetto della persona umana. Riassumendo potremo dire che per alcuni Autori la giustificazione del trattamento sanitario sarebbe da ricondurre alle cause di giustificazione codificate ex artt. 50 c.p. 18 e 54 c.p., secondo altri si individuerebbe nell'autodeterminazione del paziente.

A causa di queste opinioni contrastanti rispetto al problema dell'inquadramento giuridico-penale del trattamento medico-chirurgico si sono sviluppati, a livello europeo, due filoni di pensiero: in Italia e Francia si ritiene operante il paradigma delle cause di giustificazione rispetto allo schema dei delitti di omicidio e di lesioni; in Germania e Austria si da prevalenza all'aspetto della tipicità, muovendo alla teoria dell'azione socialmente adeguata.

A voler ben vedere è difficile inquadrare a priori il trattamento medico-chirurgico nello schema del delitto di lesioni o di omicidio poiché...

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