Il diritto al risarcimento del pedone investito: dinamiche attuali del concetto di responsabilità civile

AutoreStefania Caparello
CaricaAvvocato, foro di Livorno
Pagine489-499

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@1. Sintesi del fatto e delle questioni giuridiche

Il pedone investito fuori dalle strisce pedonali va comunque risarcito, a meno che non abbia attraversato la strada improvvisamente, in modo da impedire all'automobilista qualsiasi manovra d'urgenza necessaria ad evitare l'investimento.

Il caso di specie si inserisce nell'ambito dei danni da circolazione stradale.

Pare opportuno far precedere alla trattazione giuridica una breve disamina dei fatti.

Il 5 dicembre 1992, G.P., mentre attraversava la carreggiata, avendone già percorsa più della metà, veniva investito dall'autovettura appartenente a T.C. e condotta dal medesimo.

A causa dell'investimento G.P., riportava gravi lesioni personali, cui erano seguite inabilità temporanea e postumi permanenti.

Il processo di primo grado si concludeva con la condanna di T.C. (in solido anche della sua assicurazione Assitalia Spa) al pagamento della somma di lire 26.100.000, oltre gli interessi e le spese. Avverso tale sentenza i soccombenti proponevano appello.

La sentenza, con la quale la Corte d'appello di Roma accoglieva l'appello osservava in parte motiva che ´la presunzione di responsabilità posta a carico del conducente dall'art. 2054, comma 1 c.c., non poteva trovare applicazione nella specie, essendo incontroverso che G.P. era stato investito mentre attraversava la strada in senso trasversale, in luogo non destinato all'attraversamento pedonale, laddove dalle circostanze di fatto accertate era da escludere qualsiasi elemento di colpa a carico del sig. T.C.ª.

G.P., ha impugnato la sentenza di secondo grado, sulla base di due motivi.

Con il primo motivo, il ricorrente lamenta violazione dell'art. 2054 c.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, poiché la responsabilità del conducente è esclusa solo quando risulti provato in modo concreto che non vi era da parte di quest'ultimo alcuna possibilità di prevenire l'evento. Il fatto che il ricorrente avesse attraversato una strada cittadina in un punto privo di strisce pedonali, non poteva escludere di per sé, la responsabilità del resistente, tanto più che l'autovettura era stata trovata al centro della carreggiata per cui l'automobilista non teneva regolarmente la propria destra (come invece affermato dalla Corte).

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell'art. 134 sesto comma D.P.R. 393/59, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. La Corte di merito, infatti, dopo aver acclarato che il pedone stava attraversando in un punto della carreggiata privo di strisce pedonali, aveva statuito che il pedone era tenuto a dare la precedenza. Tuttavia, il diritto di precedenza dell'autovettura non deve essere considerato come illimitato, dovendo, anzi, essere subordinato al principio del neminem laedere, in osservanza del quale il conducente del veicolo è sempre tenuto a rallentare la velocità ed, eventualmente ad interrompere la marcia. In caso contrario, la responsabilità per l'eventuale evento colposo è sempre attribuibile al conducente, anche se al comportamento del pedone possa attribuirsi un'efficienza causale concorsuale ex art. 1227 c.c. inoltre, la Corte di merito non aveva minimamente motivato su un punto decisivo della controversia, e cioè sulla circostanza che non c'erano attraversamenti pedonali nelle vicinanze, per cui il comportamento del pedone doveva ritenersi legittimo.

Orbene, con questa sentenza, la Cassazione accoglieva il ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava, anche per le spese del giudizio di Cassazione, ad altra sezione della Corte d'appello di Roma.

La Corte di merito, infatti, si era limitata ad accertare il solo comportamento della vittima, senza valutare, nel suo complesso, la condotta di guida dell'automobilista, che avrebbe dovuto essere considerata, non solo con riferimento alla velocità tenuta dallo stesso (in concreto non ritenuta eccessiva), ma anche alla possibilità, ad opera dell'investitore, di avvistare tempestivamente il pedone sulla sede stradale, ovvero porre in essere una qualsiasi manovra di emergenza, tale da poter evitare l'investimento.

La corte d'appello, inoltre, non aveva neanche valutato la circostanza per cui, la condotta colposa del pedone, avrebbe dovuto essere valutata ai sensi dell'art. 1227 c.c., e quindi come concorrente con quella del conducente, tenuto ai sensi dell'art. 1254 c.c.

@2. Ricostruzione teorica della responsabilità civile

Ordinariamente, per responsabilità civile si intende la soggezione ad un obbligo 1, la sottoposizione ad una sanzione 2, l'obbligo di risarcire un danno 3, il ´vincolo a sopportare le conseguenze che sono ricongiunte dal diritto all'atto proprio casualmente compiutoª 4, tutte formulazioni che, come dice autorevolmente RODOTÀ 5 si limitano a descrivere una situazione giuridicamente già compiuta nei suoi elementi, ed alla quale, di conseguenza, il concetto di responsabilità non è in grado di aggiungere nulla 6.

Parafrasando l'art. 2043 c.c., quando un soggetto, capace di intendere e volere, agisce dolosamente o colposamente al di fuori della sfera dei propri diritti soggettivi, egli è tenuto al risarcimento del danno, allorché ed in quanto incida su un interesse altrui giuridicamente rilevante, arrecando al relativo titolare un pregiudizio immediato e diretto.

Per quanto attiene al primo presupposto, occorre richiamare l'art. 2046 c.c., che disciplina il presupposto dell'imputabilità del fatto dannoso.

La dottrina tradizionale 7, aveva delineato tra la capacità d'intendere e volere e la colpa, un rapporto tale per cui la prima sussisteva, se non come elemento della seconda. L'evoluzione dottrinale 8 ha portato, Page 490 in seguito, a vedere tra i due fattori una relazione di reciproca autonomia, tant'è che si è giunti ad affermare che il primo avrebbe, invero, un raggio d'azione più esteso del secondo.

La stessa differenza di disciplina, che è data rinvenire tra l'art. 2046 c.c. e l'art. 85 c.p. (laddove entrambi fanno riferimento alla capacità d'intendere e di volere) è chiaro sintomo del diverso concetto che si ha, nell'uno e nell'altro caso, del nesso tra imputabilità e giudizio di riprovevolezza morale. Mentre, infatti, ´le norme penali, nell'intento di adeguare la pena al grado di "rimproverabilità" dell'autore del reato, prevedono divesi livelli di imputabilità (piena o diminuita: cfr.artt. 89, 91, 95, 96 c.p.), l'art. 2046 c.c. attribuisce rilevanza unicamente all'incapacità d'intendere e volere, che può solo escludere (mai diminuire) l'imputabilità ª 9. Inoltre, mentre le prime provvedono a determinare analiticamente le possibili cause di esclusione o di diminuzione dell'imputabilità (vizio di mente, ubriachezza, cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, sordomutismo, età inferiore ai quattordici o ai diciotto anni), l'art. 2046 c.c. non si pone neppure il problema, lasciando libero il giudice di valutare caso per caso se vi sia incapacità 10.

L'incapacità, infatti, dovrà sempre essere accertata con riferimento al momento in cui il comportamento è stato posto in essere 11.

Non imputabile dovrà, quindi, qualificarsi qualsiasi´persona che, sebbene non interdetta, si provi esser stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace di intendere e volereª 12, laddove per capacità d'intendere si fa riferimento alla ´attitudine a valutare adeguatamente il valore sociale dell'atto concreto che si compieª e per capacità di volere alla ´facoltà di determinarsi in modo autonomo, più che in funzione dei soli impulsiª 13.

Autorevole dottrina sottolinea come per il soggetto debba farsi riferimento alla capacità naturale a nulla rilevando, in materia di illecito, la cosiddetta capacità ´legaleª ed in particolare la capacità d'agire che presuppone la maggiore età. Essa, infatti, rileva in materia di rapporti obbligatori, mentre in caso di illecito l'ordinamento ritiene che anche un minore di età sia in grado di comprendere le conseguenze dannose che da un certo comportamento possono derivare.

Con riferimento al nesso psichico, la normativa civilistica sui fatti illeciti è ispirata ad un principio di equivalenza tra dolo e colpa in ordine alle conseguenze del fatto dannoso (l'art. 2043 fa infatti riferimento a ´qualunque fatto dannoso o colposoª), a differenza del settore penale, dove dolo e colpa sono intesi invece come titoli alternativi di imputazione del fatto previsto dalla legge come reato.

Alla originaria concezione soggettiva della colpa, basata cioè sulla riprovevolezza del soggetto, ha fatto seguito in prosieguo di tempo una teoria c.d. ´oggettivaª, che si innesta su una valutazione in astratto della colpa. Quest'ultima ha riguardo al comportamento dell'uomo di media e normale diligenza, cioè del buon padre di famiglia.

Tuttavia, questa teoria rischia di togliere alla colpa stessa ogni connotato di concretezza ed elasticità, risolvendosi in una pura astrazione. Ne scaturisce un'idea di culpa in abstracto, che non tenendo conto né delle condizioni soggettive dell'agente, né della concreta natura del fatto dannoso, finisce con l'avvicinare la responsabilità per colpa ad una responsabilità oggettiva ´camuffataª.

Il giudizio di negligenza, imprudenza ecc., non può fondarsi su una regola astratta di diligenza o prudenza media, ma postula una concretizzazione dei criteri di valutazione. Non esiste quindi colpa extracontrattuale quando l'evento dannoso si sia verificato in circostanze tali che l'agente non avrebbe potuto assolutamente prevederlo, dovendosi la comune diligenza porre in relazione con le situazioni concrete che dettano un limite alla condotta umana.

Il criterio di prevedibilità dell'evento dannoso, tuttavia, non è sufficiente a fondare un giudizio di negligenza o imprudenza, giacché l'evento, anche se prevedibile da parte dell'agente, potrebbe risultare inevitabile, ovvero evitabile soltanto a condizione di astenersi da una condotta che l'ordinamento...

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