La Giurisprudenza della cassazione in tema di danno non Patrimoniale ed Esistenziale dal 2006 alle sezioni unite 26972/2008

AutoreGiuseppe Cassano
CaricaAvvocato e docente di diritto privato
Pagine93-116

Page 93

Al dibattito su contenuto e limiti del danno esistenziale e, ancor prima, sulla possibile autonomia dello stesso rispetto al danno biologico, da un lato, e al danno morale, dall'altro, non si è sottratta la giurisprudenza di legittimità che, nel corso del 2006, ha fatto registrare due importanti decisioni le quali valgono a segnare precisi punti fermi dai cui non potranno prescindere né la dottrina, nè tanto meno i giudici di merito, e che sicuramente andranno rilette e bilanciate alla luce delle Sezioni Unite 26972/2008.

Il riferimento è, in particolare, alla sentenza n. 6572 del 24 marzo 2006 adottata dalle Sezioni Unite (Pres. Carbone, V. - Rel. Cons. La Terza M.) - che si innesta su quel noto contrasto circa le necessità di provare, per il lavoratore, il danno non patrimoniale da demansionamento - e alla decisione n. 13546/2006 che affronta la questione delle conseguenze sottese alla perdita del rapporto parentale.

In dottrina la prima di tali decisioni è stata definita, con espressione che coglie certamente nel segno, «una sorta di decalogo del danno esistenziale», in quanto permette all'interprete non solo di avere una definizione univoca di danno esistenziale, ma anche precise indicazioni quanto alla prova di tale danno e alla distinzione con altre voci di danno.

Ben potendosi prescindere dalla vicenda oggetto di giudizio e dalle statuizioni dei giudici di merito (avendosi peraltro anticipato come la questione in punto di diritto attenga fondamentalmente alla necessità, o meno, per il lavoratore di provare puntualmente il danno non patrimoniale da demansionamento), è utile premettere come secondo i giudici di Supremo Collegio alla luce della forte valenza esistenziale del rapporto di lavoro, per cui allo scambio di prestazioni si aggiunge il diretto coinvolgimento del lavoratore come persona.

Per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l'illecito datoriale provoca sul fare redittuale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personaltià nel mondo esterno (Cass. civ. n. 6572/06)

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Questa definizione, che assegna definitiva cittadinanza al danno esistenziale nel nostro ordinamento giuridico, permette di affermare come sia risarcibile la differenza qualitativa di tipo negativo che la vita della vittima subisce dopo l'intervenuta lesione. Lesione che può riguardare aspetti patrimoniali (ad. es. limitazione alla godibilità della propria abitazione) e aspetti non patrimoniali (ad es. perdita del frutto del concepimento, perdita del rapporto parentale, vacanza rovinata etc.).

Ad ogni buon fine, deve qui evidenziarsi come il danno esistenziale sia catalogabile tra quei danni c.d. conseguenza nel senso che esso è materialmente e giuridicamente differente rispetto alla lesione stessa.

Diventa quindi logico corollario l'affermazione secondo cui se danno esistenziale è lo sconvolgimento negativo della quotidianità della vittima allora quest'ultima dovrà allegare e provare in giudizio in cosa consista il peggioramento della vita stessa.

Affermano sul punto le Sezioni Unite (Cass. civ. n. 6572/06): «Peraltro il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed ulteriore (propria del c.d. danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l'evento dannoso.

Anche in relazione a questo tipo di danno il giudice è astretto alla allegazione che ne fa l'interessato sull'oggetto e sul modo di operare dell'asserito pregiudizio, non potendo sopperire alla mancanza di indicazione in tal senso nell'atto di parte, facendo ricorso a formule standardizzate, e sostanzialmente elusive della fattispecie concreta, ravvisando immancabilmente il danno all'immagine, alla libera esplicazione ed alla dignità professionale come automatica conseguenza della dequalificazione. Il danno esistenziale infatti, essendo legato indissolubilmente alla persona, e quindi non essendo passibile di determinazione secondo il sistema tabellare - al quale si fa ricorso per determinare il danno biologico, stante la uniformità dei criteri medico-legali applicabili in relazione alla lesione dell'indennità psico-fisica - necessita imprescindibilmente di precise indicazioni che solo il soggetto danneggiato può fornire, indicando le circostanze comprovanti l'alterazione delle sue abitudini di vita.

Non è dunque sufficiente la prova della dequalificazione, dell'isolamento, della forzata inoperosità, dell'assegnazione a mansioni diverse ed inferiori a quelle proprie, perché questi elementiPage 94 integrano l'inadempimento del datore, ma, dimostrata questa premessa, è poi necessario dare la prova che tutto ciò, concretamente, ha inciso in senso negativo nella sfera del lavoratore, alterandone l'equilibrio e le abitudini di vita. Non può infatti escludersi, come già rilevato, che la lesione degli interessi relazionali, connessi al rapporto di lavoro, resti sostanzialmente priva di effetti, non provochi cioè conseguenze pregiudizievoli nella sfera soggettiva del lavoratore, essendo garantito l'interesse prettamente patrimoniale alla prestazione retributiva; se è così sussiste l'inadempimento, ma non c'è pregiudizio e quindi non c'è nulla da risarcire, secondo i principi ribaditi dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 378 del 1994 per cui "È sempre necessaria la prova ulteriore dell'entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall'art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere (equitativamente) commisurato"».

Per meglio comprendere come parte attrice debba soddisfare in giudizio l'onere della prova del danno esistenziale giova la lettura di un ulteriore passo della sentenza in esame.

Correttamente i giudici del Supremo Collegio abbandonano la teoria del danno esistenziale quale danno in re ipsa e tratteggiano la differenza tra l'onere della prova in tema di danno biologico e quello in tema di danno esistenziale:

passando ad esaminare la questione della prova da fornire, si osserva che il pregiudizio in concreto subito dal lavoratore potrà ottenere pieno ristoro, in tutti i suoi profili, anche senza considerarlo scontato aprioristicamente.

Mentre il danno biologico non può prescindere dall'accertamento medico-legale, quello esistenziale può invece essere verificato mediante la prova testimoniale, documentale o presuntiva, che dimostri nel processo "i concreti" cambiamenti che l'illecito ha apportato, in senso peggiorativo, nella qualità di vita del danneggiato. Ed infatti - se è vero che la stessa categoria del "danno esistenziale" si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accettabile, del pregiudizio esistenziale: non meri dolori e sofferenze, ma scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l'evento dannoso - all'onere probatorio può assolversi attraverso tutti i mezzi che l'ordinamento processuale pone a disposizione: dal deposito di documentazione alla prova testimoniale su tali circostanze di congiunti e colleghi di lavoro. Considerato che il pregiudizio attiene ad un bene immateriale, precipuo rilievo assume rispetto a questo tipo di danno la prova per presunzioni, mezzo peraltro non relegato dall'ordinamento in grado subordinato nella gerarchia delle prove, cui il giudice può far ricorso anche in via esclusiva (tra le tante Cass. n. 9834 del 6 luglio 2002) per la formazione del suo convincimento, purché, secondo le regole di cui all'art. 2727 c.c. venga offerta una serie concatenata di fatti noti, ossia di tutti gli elementi che puntualmente e nella fattispecie concreta (e non in astratto) descrivano: durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell'interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto; da tutte queste circostanze, il cui artificioso isolamento si risolverebbe in una lacuna del procedimento logico (tra le tante Cass. n. 13819 del 18 settembre 2003), complessivamente considerate attraverso un prudente apprezzamento, si può coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all'esistenza del danno, facendo ricorso, ex art. 115 c.p.c. a quelle nozioni generali derivanti dall'esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove.

D'altra parte, in mancanza di allegazioni sulla natura e le caratteristiche del danno esistenziale, non è possibile al giudice neppure la liquidazione in forma equitativa, perché questa, per non trasmodare nell'arbitrio, necessita di parametri a cui ancorarsi

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Con questo suo intervento, inoltre, la Cassazione sgombra definitivamente il campo da quella critica mossa da più parti secondo cui il danno esistenziale finirebbe per essere inutile duplicazione del danno morale proprio perché il danno esistenziale - precisano le Sezioni Unite - si fonda sulla natura non meramente emotiva ed ulteriore - che invece è propria del danno morale - ma su quella del pregiudizio oggettivamente accertabile attraverso la prova di una quotidianità differente a causa della lesione subita.

Infine, il danno esistenziale è ritenuto conseguenza anche di un inadempimento contrattuale.

Ed infatti, stante la peculiarità del rapporto di lavoro, qualunque tipo di danno lamentato, e cioè sia quello che attiene alla lesione della professionalità, sia quello che attiene al pregiudizio alla salute o alla personalità del lavoratore, si configura come conseguenza di un...

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