Il paradigma organico dell'esplorazione

AutoreSergio Ortino
Occupazione dell'autoreProfessore ordinario di diritto dell’economia, Università di Firenze
Pagine237-329

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@1. La preistoria e gli strumenti di indagine

Nel momento in cui mi accingo a ricostruire le principali fasi di quel periodo remoto della nostra evoluzione iniziato circa 7-6 maf, è arduo sottrarsi a due sensazioni di segno opposto, ben note agli specialisti di questi studi. Page 238

Da una parte, si è messi di fronte alla frustrante consapevolezza dell'occasionalità e frammentarietà delle evidenze a disposizione per ricostruire validamente quell'epoca, con la prospettiva inevitabile di finire per formulare fragili ricostruzioni facilmente confutabili da altrettanto fragili obiezioni. Nonostante gli innegabili e sorprendenti progressi fatti in questi settori dalla ricerca negli ultimi decenni, non vi è dubbio che le evidenze a nostra disposizione sono comunque scarse e gran parte delle nostre conoscenze si basano su congetture che devono di continuo essere messe a punto, se non drasticamente corrette, proprio a seguito delle nuove scoperte che i sofisticati metodi e strumenti di ricerca rendono oggi possibile.

Questo disagio viene, tuttavia, in qualche modo alleviato da due circostanze favorevoli. In primo luogo, se compariamo la frammentarietà e occasionalità delle evidenze sulle nostre origini preistoriche con gli studi sull'evoluzione delle specie in generale, è indubbio che la presente ricerca è avvantaggiata per il fatto che, avendo la nostra famiglia zoologica origini piuttosto recenti se valutate in termini di tempi geologici, i ricercatori in genere possono scendere in dettagli investigativi molto approfonditi, spesso in grado di fornirci in modo abbastanza esauriente le principali tendenze seguite dalla nostra evoluzione. In secondo luogo questo tipo di studi può avvalersi di un cospicuo numero di ricerche comparativamente maggiore che in altri settori, stante il peculiare interesse che ha per noi la nostra evoluzione. Sia in profondità che in estensione abbiamo pertanto una situazione relativamente migliore che in altri analoghi campi di studio più remoti nel tempo e/o meno studiati.

Allo stato di generale frustrazione che prende chiunque voglia approfon- dire questa materia, corrisponde d'altro canto la legittima convinzione che l'opera che si intraprende è una delle più affascinanti che la nostra mente pos sa adempiere, dovendo esplorare il contesto e le cause che hanno dato origine a quello che siamo, rintracciare i passi fondamentali fatti per distinguerci all'interno dell'ordine dei primati, prima con la famiglia degli ominidi, poi con il genere Homo e infine con la nostra specie sapiens; dovendo capire perché geneticamente siamo così vicini a scimpanzé e bonobo e perché siamo stati capaci di differenziarci al punto tale che questi animali così affini a noi rischiano l'estinzione e noi il sovraffollamento planetario. Se la storia, intesa come narrazione del passato sulla base di documenti scritti che possono risalire al massimo a qualche migliaio di anni fa, è considerata all'unanimità un valido strumento per capire l'uomo nella sua essenza e nella sua esistenza, è facile intuire allora quanto sia ancora più importante a tale fine tentare di nar- rare una preistoria di qualche milione di anni durante i quali sono stati scolpiti nelle nostre strutture morfologiche e psicologiche, nei nostri geni e nei primi strumenti che siamo stati capaci di creare, i tratti primordiali e fondamentali della nostra specie. L'essere consapevoli che si tratta di piccoli e incerti passi verso la comprensione di questo remotissimo passato non diminuisce l'importanza dell'opera.

Alla luce di queste riflessioni bisogna allora concludere che il tentativo di cercare di narrare la nostra evoluzione dagli albori ricostruendone le varie tappe dalla scimmia all'uomo in un modo coerente e logico, ancorché basato Page 239 su deduzioni e illazioni in ogni momento confutabili, è molto più istruttivo che la mera compilazione di una lista di fatti del tutto slegati tra loro.

@2. L'uomo: origine, evoluzione, confini

2.1. Sul finire del XVIII secolo si poteva assistere nella cultura occidentale all'affermazione di nuove teorie geologiche e naturaliste che mettevano in dubbio la narrazione biblica del libro della Genesi - quanto meno nel suo valore strettamente letterale. Ciò accadeva in concomitanza all'affievolirsi progressivo delle credenze di una Terra formatasi da qualche migliaio di anni soltanto e della immutabilità di tutti gli esseri viventi sul Pianeta. Sulla base delle nuove conoscenze sulla formazione stratigrafica della Terra e delle nuove teorie evoluzioniste sull'origine delle specie, nonché dei reperti fossili di organismi estinti, si cominciò ad attribuire al nostro Pianeta un'età sempre maggiore e a ipotizzare una discendenza di tutte le multiformi forme di vita esistenti da pochi antenati comuni.

Tutto ciò conduceva inevitabilmente a riconsiderare alla radice anche la posizione dell'uomo nel mondo. Non si trattava soltanto di limitarsi ad accettare la classificazione suggerita dal medico Carl von Linné - ancora fermamente convinto della immutabilità di tutti gli esseri viventi fin dal giorno della Creazione -, che non esitò a collocare lo scimpanzé nel genere Homo1, o le intuizioni del naturalista e biologo Buffon circa le somiglianze tra uomo e scimmia e la possibilità di una genealogia comune2. La questione fondamentale consisteva nel deporre l'uomo dal piedistallo su cui il pensiero religioso e filosofico lo avevano collocato fino a quel momento, e ricercare le sue radici in quegli stessi antenati comuni che avevano dato vita prima alla classe dei mammiferi e poi all'ordine dei primati, in particolare, alla superfamiglia Hominoidea comprendente gibboni, oranghi, gorilla, scimpanzé, bonobo e umani.

Non sorprende che in questo nuovo clima culturale vedeva la luce una nuova disciplina accademica, l'antropologia. Benché impegnata a studiare aspetti dell'uomo già noti fin dall'antichità classica, questa scienza era specificamente volta a determinare i confini dell'umanità, a individuare ciò che ci distingue dalle altre specie, a dare un senso agli esseri umani. Compie così i primi passi l'antropologia fisica e biologica che studia i rapporti tra la nostra specie moderna e gli altri primati attuali, seguita subito dopo dalla paleoantropologia che studia le specie umane estinte, differenti in pochi tratti dall'uomo moderno attuale, e gli altri generi estinti della famiglia ominide che, pur essen- do nostri progenitori diretti, avevano invece molti caratteri non ancora umani.

Se diffusa è l'opinione che l'oggetto di questi studi fisico-biologici dell'antropologia si stia oramai quasi esaurendo3, non vi è dubbio alcuno che Page 240 la continua acquisizione di accreditate e approfondite conoscenze nel campo della paleontologia, della biologia molecolare e della etologia, ci rende consapevoli ogni giorno di più che i confini fisici e biologici dell'umanità sono tutt'altro che acquisiti una volta per tutti. Come è già stato evidenziato e come risulterà nel prosieguo di questa ricerca, sono oramai molteplici le scienze che si cimentano nel determinare non soltanto quello che appare specifico della nostra specie, ma anche l'innumerevole quantità di caratteri che condividiamo con molte altre specie di primati e altre classi - come ad esempio gli uccelli. Si vedrà nel corso di questo capitolo come, ad esempio, è stato possibile rinvenire in alcune scimmie sistemi di comunicazione relativamente complessi, ovvero ipotizzare una stessa fisiologia di alcune strutture acustiche che permetterebbero a umani e uccelli, grazie ai loro similari cervelli di vertebrati in questo particolare organo, di percepire e godere la musica e il canto4.

Compiuta alla luce delle nuove scoperte questa operazione di ricollocazione dell'uomo nel mondo degli esseri animali in generale e dei primati in particolare, restava da spiegare ex novo le ragioni del successo adattativo della nostra specie nel brevissimo intervallo di tempo degli ultimi 50 mila anni. Infatti, una volta che si prescindeva da un intervento soprannaturale di origine divina, si doveva proseguire l'indagine sulla base delle sole evidenze scientifiche che i nuovi metodi di studio erano in grado di fornire. I paleontologi, ad esempio, sanno che per giustificare il successo adattativo di qualche gruppo di animali, è necessario individuare le caratteristiche morfologiche che permettono a quel gruppo di animali di trarre i maggiori vantaggi dall'ambiente in cui vive. Parimenti i paleontologi sanno che, dalla comparsa delle prime forme di vita ad oggi, le specie di maggior successo, non soltanto si sono alternate continuamente, evidenziando che i caratteri vincenti per il miglior adattamento si modificano continuamente, ma spesso si sono dimostrate tali anche quelle in grado di rimanere stabili nel tempo.

Su questo terreno così complesso, pieno di insidie e illusorie verità, la prima fra tutte le scienze che si occupano dell'uomo (dall'esterno come specie e dall'interno come insieme di strutture organiche)5, è proprio la paleoantropologia, la branca della paleontologia che si dedica alla preistoria dell'uomo, a dover spiegare i caratteri morfologici del successo dell'uomo sul Pianeta. Il compito non è certo dei più facili, a cominciare dal fatto che da qualche anno si doveva tener conto della nuova sistematica di classificazione delle grandi scimmie su basi filogenetiche. Dal momento che geneticamente non differiamo poi così tanto dalle grandi scimmie africane (gorilla e scimpanzé), si è pensato di arricchire la nostra famiglia ominide con questi due nuovi generi (Gorilla, Pan), lasciando l'altra grande scimmia asiatica, l'orango (Pongo), che geneticamente si differenzia di più dai gorilla e dagli scimpanzé di quanto questi si differenzino dagli umani, come unico genere della famiglia dei pongidi. E poiché geneticamente ci differenziamo meno dagli scimpanzé che dai Page 241 gorilla, da qui a definire l'uomo (Homo sapiens) come il terzo scimpanzé, dopo lo scimpanzé...

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