Brevi osservazioni sulle innovazioni introdotte dai “pacchetti sicurezza” finalizzate ad aggredire i patrimoni illeciti delle grandi associazioni mafiose

AutoreMarcella Marcianò
Pagine567-570

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È un dato ormai acquisito che l’esigenza di realizzare un’efficace azione di contrasto istituzionale alle manifestazioni di illegalità, in considerazione della mutata fisionomia del crimine organizzato, ha dato vita a recenti provvedimenti legislativi di riforma che sono stati prodotti, ancora una volta, in un contesto dichiaratamente emergenziale1.

La globalizzazione dei mercati clandestini e l’inadeguatezza delle preesistenti tecniche preventive e di contrasto allo sviluppo irrefrenabile delle associazioni criminali nel settore dell’economia ha mostrato, infatti, nuovamente l’esigenza di una innovazione normativa finalizzata a superare i limiti delle tradizionali soluzioni sanzionatorie e degli ordinari strumenti di aggressione dei patrimoni illeciti approntati dal legislatore sin dal lontano 19822.

Al riguardo, anche la Corte europea dei diritti dell’uomo, in numerosi sue decisioni, ha evidenziato le difficoltà incontrate dallo Stato italiano nella lotta alla mafia, alle sue attività illegali, (in particolare al traffico di stupefacenti) e ai suoi legami internazionali, sottolineando ripetutamente le peculiarità di questa organizzazione, in grado di avvalersi di enormi quantità di denaro e di insinuarsi, in maniera capillare, in ogni settore della vecchia e della nuova economia3.

Attualmente, infatti, il crimine organizzato, abbandonato il latifondo, è divenuto “la prima «industria» nel pianeta” e il traffico illegale di sostanze stupefacenti e di armi, fonti di reddito ben più cospicui di quelli riconducibili all’industria petrolifera4.

Davanti a questi nuovi moduli operativi del crimine, non più rurali, bensì riconducibili alle più sofisticate conoscenze economiche, commerciali e produttive, l’obiettivo principale del legislatore è stato, allora, quello di pervenire alla predisposizione di strategie di contrasto volte ad “impoverire” le suddette organizzazioni criminali al di fine di “neutralizzarle”5, rendendo la confisca e il sequestro dei patrimoni illeciti il comune denominatore di tutte le recenti riforme legislative e, inevitabilmente, anche degli ultimi interventi concretizzatisi nei c.d. “pacchetti sicurezza”6.

Com’è noto, tra le innovazioni introdotte dal legislatore del 2008 assume rilievo, in riferimento alle misure di sicurezza patrimoniali applicabili ai soggetti che abbiano riportato condanne per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., l’ampliamento dell’ambito applicativo dell’art. 12 sexies del d.l. 306 del 1992, convertito in legge n. 356 del 1992.

La previsione di tale provvedimento ablatorio, in parallelo a quello introdotto nel procedimento di prevenzione, si inserisce pienamente nel quadro normativo prospettato già nella legge n. 646 del 1982 che ravvisava nel patrimonio lo scopo dell’attività illecita delle associazioni criminali e, al tempo stesso, lo strumento adoperato per potere, con efficacia, svolgere e incrementare l’attività stessa.

Ad ogni modo, per comprendere il rilievo della innovazione apportata dalle recenti riforme legislative in esame, è necessario analizzare l’ipotesi di confisca appena richiamata (riconducibile ad una categoria di strumenti sotto certi punti di vista “atipici” perché ammissibili solo in considerazione della particolare gravità e invasività dei reati mafiosi e terroristici) in riferimento anche alle preesistenti previsioni di cui agli artt. 240 e 416 bis del codice penale.

L’art. 12 sexies del richiamato decreto, rubricato “ipotesi particolari di confisca” prevede, infatti, la confisca obbligatoria e allargata di tutti i beni di cui il condannato per alcuni delitti indicati dalla norma (tra cui l’associazione per delinquere di tipo mafioso, anche straniera) non può giustificare la provenienza e che hanno un valore sproporzionato rispetto al proprio reddito ed alla propria attività economica (essendo irrilevante il requisito della “pertinenzialità” dei beni rispetto al reato)7.

Dalla lettura della normativa appena citata risulta evidente che tale ipotesi di confisca differisce da quella prevista dal comma settimo dell’art. 416 bis c.p. e da quella disciplinata dall’art. 240 c.p., le quali trovano, invece, applicazione in riferimento ai beni appartenenti al condannato qualora sia individuabile un collegamento degli stessi con l’attività delittuosa8.

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Al riguardo, una questione di rilevante interesse per comprendere pienamente il rilievo della introduzione della confisca ex art. 12 sexies del d.l. 306/1992 (in seguito ulteriormente ampliata con la previsione della confisca per “equivalente” introdotta dal pacchetto sicurezza) è quella relativa al concetto di “prezzo del reato” ex art. 240, comma 2, c.p., in tutti quei casi in cui lo stesso sia riferibile all’attività illecita di una organizzazione criminale.

La tradizionale nozione di “prezzo del reato”, inteso come utile pattuito e conseguito da una determinata persona come “corrispettivo” dell’esecuzione dell’illecito non sembra, infatti, adattabile alle fattispecie delittuose aventi una struttura permanente9: queste ultime, tra le altre cose, si caratterizzano per la finalità di perseguire un programma delittuoso che si protrae nel tempo, determinando, tra l’associato e l’associazione criminale, un rapporto di dare-avere che non può essere circoscritto ad un momento di sinallagmaticità, ma che, al contrario, si inserisce in un processo dinamico di condotte illecite, fonti di vantaggi...

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