Orientamenti giurisprudenziali recenti e prospettive future in tema di rifiuto di cure

AutoreCaterina Brignone
Pagine921-938

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@1. Introduzione

– Nei sistemi giuridici occidentali, il consenso informato si è imposto come criterio regolare della relazione medico-paziente e «principio fondamentale in materia di tutela della salute»1. Dal recepimento di tale principio «dovrebbe derivare anche la possibilità di rifiutare il trattamento da parte dell’interessato libero, capace ed informato. Tuttavia, l’uso del condizionale è d’obbligo, perché si continua a discutere sulla ammissibilità o sui limiti di ammissibilità del rifiuto di cure e l’intervento del legislatore è stato invocato ora per riconoscere ora per negare il diritto di veder rispettata la volontà dissenziente, anche quando ne discenda pregiudizio per la vita o la salute2. Nel nostro Paese, in assenza di una disciplina ad hoc, è stata la giurisprudenza più recente a specificare che il consenso informato ha come corollari la facoltà di scegliere tra diverse possibilità di trattamento medico ed anche quella rifiutare o far interrompere cure indesiderate, fermo restando il limite dei trattamenti dannosi o integranti eutanasia attiva3. Si tratta di un chiarimento importante, arrivato dopo decisioni sofferte o contraddittorie che avevano diviso i giuristi e spaccato l’opinione pubblica; si tratta, però, di un svolta che schiude nuovi orizzonti e non di un punto d’arrivo, com’è reso evidente dal confltito istituzionale, dal dibattito etico, politico e sociale e dal fermento legislativo che hanno fatto seguito alle sentenze più coraggiose4.

Il diritto penale è coinvolto a pieno titolo in questo contesto, perché il riconoscimento del diritto di rifiutare le cure quale specifico aspetto dell’autodeterminazione terapeutica porta in primo piano la dimensione normativa dei più classici «delitti naturali». In particolare, si è reso necessario valutare come la volontà del malato incida sugli obblighi di cura del medico, sulla posizione di garanzia e sulla responsabilità per eventi lesivi o mortali5 ed ulteriori interrogativi si affacciano all’interprete.

Allora, appare utile rivedere e sistematizzare il percorso, non sempre lineare, della giurisprudenza e valutare le attuali prospettive legislative di riforma sia per evidenziare gli aspetti ormai pacifici sia per offrire elementi di riflessione sulle questioni ancora aperte in tema di rifiuto di cure.

Ancor prima, però, occorre chiarire che di rifiuto in senso proprio si deve parlare quando una persona decide – in modo consapevole, libero e informato – di non sottoporsi alle terapie consigliate. La precisazione non è ultronea, se si considera che ricorre – non solo nell’approccio mediatico, ma persino in taluni provvedimenti giurisdizionali6 – una certa confusione con i casi di volontà mancante e di accanimento terapeutico, la cui compelssità impone di fare rinvio ad approfondimenti specifici per scongiurare l’eccessiva semplificazione ed il rischio di banalizzazione cui andrebbe inevitabilmente incontro la trattazione a margine del presente scritto7.

Il rifiuto, invece, non si differenzia – se riferito a cure salvavita – dall’eutanasia passiva e sono principalmente ragioni tattico-comunicative a far preferire l’utilizzo dell’una espressione piuttosto che dell’altra8. Così, si esprimono in termini di eutanasia passiva soprattutto «coloro che reputano illegittimo il rifiuto di cure salvavita e, pertanto, cercano di assimilarlo linguisticamente a una pratica, l’eutanasia attiva, molto deprecata nella coscienza sociale»9; per converso, prediligono la formula «neutra» del rifiuto di cure coloro che cercano di favorire la ripresa del dialogo tra laici e cattolici10, spostando la prospettiva dalla volontaria dismissione del «dono» della vita all’accettazione di quella morte che, nel sentire del credente, rappresenta il momento della ricongiunzione a Dio. Propaganda ideologica, da una parte, e gusto del politicamente corretto, dall’altra, hanno generato una schizofrenia linguistica che non è d’aiuto alla comprensione e che la scienza giuridica dovrebbe superare, abbandonando l’eccessivo «pudore» nell’utilizzo della nota categoria concettuale dell’eutanasia11, ma evidenziando, al contempo, il dato fondamentale che le diverse species involgono problematiche a richiedono approcci e soluzioni differenti12.

@2. Il rifiuto di cure da parte di soggetti adulti capaci.

@@2.1. Capacità di decidere

– È importante distinguere a seconda che il soggetto della cura sia capace o meno, poiché le due situazioni richiedono verifi-Page 922che, approfondimenti e giudizi differenti. Laddove il paziente sia capace, infatti, basta appurare la chiarezza e completezza dell’informazione fornita e l’insussistenza di vizi del volere; in caso di incapacità, invece, bisogna stabilire quali criteri debbano guidare l’agire per altri e se la volontà pregressa o ipotetica dell’interessato possa avere un peso sulle determinazioni sanitarie. Ne discende che l’accertamento della capacità riveste capitale importanza, dipendendo da esso l’attribuzione del potere decisionale alla persona direttamente incisa dal trattamento o ad altri in sua vece. Ciononostante, tale aspetto è solitamente trascurato dai giuristi italiani, troppo spesso paghi del criterio formale della capacità dichiarata che difetta per rigidità e inadeguaezza specie con riguardo al mature minor ed a colui che alterni momenti di lucidità a stati confusionali.È, invece, da prendere ad esempio quel functional approach tipico dell’ordinamento inglese e statunitense, che impone di valutare – caso per caso e avuto riguardo a tutte le circostanze rilevanti – se l’interessato sia in grado di comprendere la natura e le conseguenze della decisione che si accinge ad adottare13. Al momento, purtroppo, non sembra sia questa la via che il legislatore intende percorrere, considerato che il disegno di legge in tema di consenso informato attualmente in discussione in Parlamento resta ancorato agli ordinari meccanismi di sostituzione o affiancamento nella decisione connessi ai tradizionali istituti civilistici della interdizione, inabilitazione e amministrazione di sostegno (art. 2, commi 6 e 7, D.D.L. Calabrò).

Ora si tratta di verificare come si sia evoluto il trattamento del rifiuto espresso dalla persona capace, libera e informata.

@@2.2. Quadro degli orientamenti pregressi

– La preoccupazione di non scalfire la tutela – o forse la sacralità – della vita ha rappresentato il comune denominatore di soluzioni giurisprudenziali che, seppure diversamente congegnate, arrivavano al medesimo risultato di svalutare il peso della volontà del soggetto della cura in ambito sia civilistico che penalistico. Volendo sistematizzare, si possono individuare quattro linee argomentative: negare in radice la rifiutabilità delle cure salvavita; bilanciare l’autodeterminazione terapeutica con altri beni/interessi; differenziare la disciplina del rifiuto iniziale rispetto alla richiesta di interruzione di terapie in corso; limitare la vincolatività della volontà negativa ai soli casi di contestualità al trattamento. I diversi percorsi spesso si intersecano nel corpo motivazionale dello stesso provvedimento, per cui è difficile darne conto in modo separato ed in ordine cronologico. Tuttavia, si può evidenziare che, con la progressiva affermazione di valori autonomistici nel contesto nazionale e internazionale, è divenuto più difficile sostenere in modo esplicito il doppio binario di disciplina tra consenso alle cure, fondante il trattamento, e rifiuto, vincibile quando sia in gioco il bene vita. Ciò ha portato alla retrocessione della posizione più netta di irrinunciabilità di determinati trattamenti in favore di itinerari logici più sottili e mistificatori.

@@2.3. Segue: Non rifiutabilità dei trattamenti salvifici

– L’idea della non rifiutabilità dei trattamenti salvavita prende le mosse da una dottrina precedente all’entrata in vigore della Carta costituzionale14 e fa perno principalmente sui due cardini dell’indisponibilità della vita – desunta dagli artt. 5 c.c., 579 e 580 c.p. – e del dovere del medico di salvaguardare l’integrità psico-fisica del paziente.

Senza andare troppo indietro nel tempo, tale impostazione si ritrova nella pronuncia del 2001 sul caso Barese in tema di responsabilità penale del medico per over-treatment, allorquando la Suprema Corte, manifestando preoccupazione «per una eccessiva enfatizzazione» dell’elemento volontaristico, ha ritenuto che l’esplicito dissenso del paziente non potesse eccedere i limiti di cui all’art. 5 c.c. e che, pertanto, fosse scriminato dallo stato di necessità l’intervento posto in essere dal professionista contra voluntatem aegroti per far fronte a situazioni di pericolo grave ed attuale per al vita o la salute dell’assistito15.

Ancora nel 2006 la tesi dell’indisponibilità della vita è comparsa, seppur in modo confuso, nell’ordinanza del Tribunale di Roma ex art. 700 c.p.c. sul caso Welby16. In quella sede, il principio di autodeterminazione e consenso informato è stato affermato in astratto, ma smentito in concreto. Infatti – in contraddizione col riconosciuto «diritto soggettivo perfetto» a rifiutare anche terapie life-sustaining e life-saving – si è individuato un vuoto di disciplina nel rapporto medico-paziente con riguardo alle scelte di fine vita per poi desumere dagli artt. 5 c.c., 579 e 580 c.p. e dal codice deontologico medico l’indisponibilità della vita e il permanere dell’obbligo di intervento del sanitario a fronte di un rifiuto che metta a repentaglio il bene supremo. La stessa linea è stata sposata, nel giugno del 2007, dal Gip che ha ordinato l’imputazione coattiva per il delitto di cui all’art. 579 c.p. del medico che aveva accolto la richiesta di Welby di disconnettere il respiratore sotto sedazione17.

Eppure, l’assunto dell’indisponibilità del corpo oltre i limiti tracciati dall’art. 5 c.c. – per quanto storicamente sotteso alla disposizione civilistica ed agli artt. 579 e 580 c.p. – non trova base testuale nella Costituzione, che, sancendo l’inviolabilità della...

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