Dell'opera degli avvocati quanto alle persone

AutoreVincenzio Moreno
Pagine75-87

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@Titolo I. Partizione della materia

  1. Siccome le diverse[122] cose domandano diverso costume, così le persone. E siccome l’uomo civile altrimenti adopera secondo le persone colle quali usa, così l’avvocato. Bella ed onesta è quella temperata mutevolezza di modi, che compone gli animi a favore o ad amicizia o ad ossequio, o a dimestichezze, e spesso a più cose insieme secondo la diversa condizione di coloro ai quali si favella o si scrive: e bella è quella studiata urbanità che un uomo zotico e villano chiamerebbe [123] simulazione e versipelleria, ma che veramente appellasi gentilezza e pratica sociale. La quale mutevolezza apparisce in ogni atto dell’avvocato che non debbe essere con tutti parimenti ossequioso nè con tutti parimenti grave, nè con tutti piacevole e giulivo. E questa versatilità, comechè sembri ripugnante alla natura ed a quella lealtà che comanda la franchezza dei modi e rifiuta ogni sembianza di menzogna, è pur bisognevole a chiunque deve compiere le leggi della comunanza sociale assiduamente, dalle quali fu posto il freno a molti sentimenti naturali. Le persone colle quali l’avvocato usa sono i magistrati: i clienti: i colleghi: gli uffiziali di giustizia. Dei quali tutti sarà trattato appresso.

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    @Titolo II. Ufficio verso i magistrati

  2. Giovanni Desmares giureconsulto francese del decimoquarto secolo dettava con parole di quell’età: li advocats doivent acquerir, et grader l’amour du judge, ossia gli avvocati hanno uopo di ottenere, e serbare l’amore del giudice. E veramente se i due ordini sono sì strettamente collegati fra loro che l’uno non può stare senza dell’altro, e quel [124] dell’avvocato dee di necessità tener dietro a quello del magistrato, non possono senza danno della cosa pubblica divergere quelli animi. E dovendo un dei due piaggiare onestamente l’altro, un certo omaggio al potere che non basti a scemare dignità è più necessario; ed è virtuoso e plausibile chi il guardi come zelo di pubblica prosperità.

  3. Ognuno intende di leggieri che nel farmi a dettare queste cose io tratto degli avvocati del regno nostro: le quali saranno per avventura inutili, laddove quella indipendenza di cui favellò il d’Aguesseau sia pur vera ed integra: dove sieno parimenti considerati come uffizî civili quello del giudice e dell’avvocato; ma non sono inutili no dove l’avvocato tanto ha di ossequio e di libertà, quanto gliene è conceduto non solamente dalla sua magnanimità, ma dalla sua prudenza.

    Per la qual cosa dee l’avvocato usare col giudice cortesemente come sa e può meglio; e schivare tutto ciò che può essergli sgradevole, e adoperare quel che a lui piaccia.

  4. E primamente si dee sedulamente visitare i giudici, perocchè gli affari non bastano a tener viva e durevole quell’amicizia di cui ho favellato sopra. Le visite non sieno sì brevi che sembrino fatte sol per usanza, nè si lunghe che producano noia e fastidio. [125] Imperciocchè la finta amicizia è più odiata che la stessa nimistà, e la troppa dimestichezza nè torna gradita al giudice, nè utile all’avvocato, e nuoce alla fama di entrambi.

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  5. Le visite si fanno nelle occasioni fatte solenni dall’uso comune: il dì onomastico, il capodanno, le nozze, le morti dei congiunti, ed altrettali sono occasioni siffatte, nelle quali è bene che tu venga nella casa del magistrato.

    Guardati dal favellare di affari presenti e futuri in queste tue visite: daresti mostra di poca urbanità e di miserabile animo. Purtuttavia se il ragionamento venga spontaneo a domandare qualche esempio, o se il giudice medesimo t’inviti a parlare di quella tale faccenda, e tu parlarne meglio che puoi. Ma se egli comincia a dirti per monosillabi della piova, e del sereno, affrettati a cessar la visita: perocchè allora è grave.

    E nelle visite, cioè nell’usare privatamente, indaga qual sia il mo’ di dire, quali le opinioni letterarie o scientifiche dell’uomo, massimamente nel diritto, quali gli autori, quale la giurisprudenza più gradita. Abborri da ogni altra ricerca non consentita dalla lealtà e dal decoro: queste basse arti ti farebbono spregevole a te medesimo.

  6. Se per via ti abbatti in un magistrato, non ricusargli onore, e se fai lo stesso [126] camino ponti alla sua sinistra, e tienti alquanto indietro, e salutalo con cenni ossequiosi anzi che no: ma adopera in guisa che tutte queste cose dieno mostra di urbanità squisita, non di viltà d’animo.

    Quando egli viene in casa tua, usa con lui cortesemente, e meglio che con altri, non facendolo indugiare in sala, ed accompagnandolo fino all’uscio della casa quando egli esce.

    Allorchè t’incontri in lui in un ritrovo pubblico o privato, se egli parli bene e vero, applaudi; se male, taci. Se lui assente si favelli del suo ingegno, del suo sapere, o di qualechessia altra condizione sua, diverti il parlare. Lodarlo parrebbe viltà, biasimarlo intemperanza. Nondimeno quando o le persone o le cose ti costringono a parlarne, di’ il vero, così come faresti di altri, ma sempre più umanamente che sai.

  7. S’egli ti chiami a sè sii sollecito d’andare: se ti chieda un servigio, fa di compirlo.

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    Nè voler credere che siano fanciullaggini coteste, e argomenti di animo vile e codardo: sono atti d’urbanità, i quali possono trasandarsi con altri senza dar taccia di peccato, ma non già con coloro che bene o mal tuo grado, debbono usar teco di continuo.

    Ed assai meno credi che questi urbani segni di ossequio non vadano a sangue di tutti. [127] Rammenta l’humani nihil alienum: anche i più zotici e villani uomini, che paiono più schivi di queste cose, infin del fine non se ne contristano. Senzachè è più profonda l’ambizione di coloro che mostrano spregiare queste riverenze: non è che ei non le vogliano; vogliono, profferte che siano, rifiutarle: e pongono nel rifiuto la loro gloriuzza.

    E qua dico quel che...

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