Responsabilità oggettiva: spunti per una teoria ricostruttiva

AutoreFederico Bellini
Pagine803-809

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Il segno oggettivo predicato in ordine alla responsabilità viene di norma ad incarnarsi in talune manifestazioni paradigmatiche quali i reati di stampa o la responsabilità accollata alle società sportive per intemperanze dei propri tifosi.

Un «tipo» meglio accreditato è costituito dai c.d. «reati di posizione» o di «mero sospetto» 1.

La ricostruzione dogmatica della categoria prevede in realtà ben altro approccio e riconosce come fondante, in termini propedeutici, la formulazione tripartita della struttura di reato.

La soggettivazione della responsabilità esige l'assolvimento dell'equazione a+b+c-d, nella quale si riconosce la necessarietà della compresenza di espressioni genetizzanti di segno positivo identificabili nei termini della fattualità, rivalutata peraltro - pur se non in visione assiologica - dalla connessione con elementi recuperati nella sfera del determinismo. La struttura costitutiva stessa del concetto è condizionata dalla concretizzazione di questo segmento.

Nella schematizzazione dell'excursus tassonomico, il primo livello di presenza necessitata si identifica in quello che la manualistica è solita definire l'elemento materiale, altrimenti «il fatto di reato».

La responsabilità civile non ammette la coagulazione dell'illecito come concetto ontologicamente apprezzabile in assenza di un fatto di nocumento. Su queste pragmatiche basi i Romani costruirono il paradigma della colpa aquiliana.

Simile entelechia esorcizza sin dal pronao dell'istituto l'ipotesi di realizzazione di una responsabilità di tipo oggettivo nella costellazione civilistica.

È talmente vero che in ambito civile un fatto (illecito) deve sussistere tuttavia, che il legislatore ha, con apparente improprietà lessicale, rubricato «dei fatti illeciti» la tranche normativa che inerisce la colpa civile extra contrattuale.

La dottrina penalistica disquisisce sul dato se il «fatto di reato» debba concretizzarsi in un evento oppure se sia sufficiente una condotta. Qualcuno ha immaginato anche reati senza condotta, lo abbiamo già osservato.

L'esatta ricostruzione del paradigma soggettivizzato presuppone il corretto apprezzamento di una precisa sequenza anatomica che si sviluppa nei termini di una verifica della sussistenza, nell'ordine, dell'elemento oggettivo, dell'elemento soggettivo (colpa o dolo, preterintenzione); dell'antigiuridicità oggettiva e dell'assenza di cause di giustificazione.

La punibilità deve essere apprezzata quale condizione di assolvimento di tutte e di ognuna delle componenti strutturali.

La soggettivazione della responsabilità viene quindi in luce quale condizione per l'irrogabilità della sanzione e pertanto della punibilità, giusta prescrizione della Grundnorm costituzional-penalistica.

Il nucleo dell'assunto risiede in una silloge: la irrogabilità della sanzione comporta la punibilità e la punibilità presuppone come condizione esistenziale statutaria la soggettivazione della responsabilità.

L'assenza di punibilità, ossia l'improponibilità giuridica dell'irrogazione sanzionatoria, presuppone la non soggettivazione della responsabilità e quindi l'oggettivazione della stessa. Dalla carenza di uno qualsiasi degli elementi strutturali che concorrono algebricamente alla formazione della figura di reato, discende pertanto l'oggettivazione della responsabilità.

Il «fatto» è una delle componenti che debbono intervenire perché si determini (recte perché venga determinata) l'esistenza del reato. Nessuna graduatoria di importanza è possibile fra di esse.

Elementi rituali, sostantivi a riflesso positivo ed altri negativo, tempi, modi, verba et acta: tutto deve concorrere a procreare la statuizione dell'esistenza del reato. Il fatto in sè scolora nel suo significato. Anche la sua qualificazione giuridica degrada di importanza, se vogliamo avvicinarci al paradosso di Kelsen sull'illiceità.

Reato, giudizio, sanzione. Rapporti pirandelliani preludono alla collocazione reciproca dei tre momenti, a meno che non si voglia vedere il mediano come ponte di collegamento fra gli altri due.

L'esperienza insegna che si possono avere reati senzagiudizio e senza sanzione, giudizi con sanzione senza reato, reati con sanzione senza giudizio, mai giudizi senza reato.

Fatto o reo quale bersaglio del giudizio? Sistema ibrido oggi da noi, adombrate predestinazioni di chiara marca protestante presso gli autori tedeschi primi secolo XX.

Probabilmente si dovrebbe giudicare solo sul fatto, tenendo il reo e le tentazioni psicologiche fuori dalla porta, almeno fintanto che non lo si potrà curare.

Fatto e materialità, l'attenzione rivolta dal Radbruch - per dirne uno - al «reato come azione»; teoria naturalistica e teoria giuridica dell'evento: le acque sulle quali galleggia il segmento materiale del reato rimangono sempre agitate.

Il cappello a cilindro della dogmatica crea ed annichilisce interi spezzoni della figura strutturale del reato.

La dottrina ha iniziato con il cercare di definire il concetto di «azione» ed è giunta alla sua crisi.

Emblematico Jdescheck 2 che si arrende e consiglia la rinuncia ad un concetto generale di azione nella teoria del reato.

Nessun settore della struttura del reato regge ad un esame critico, forse perché si basa su un equivoco primigenio: non che il concetto di «reato» esista ontologicamente ma che il vocabolo esprima, per differenti individui, il medesimo concetto.

La struttura del reato può essere stabilizzata sulla base di due segmenti (l'elemento oggettivo e quello soggettivo), più l'autore (soggetto attivo), il tutto tenuto insieme da dei «tiranti»: il nesso eziologico, che collega fra loro i due settori di cui si compone il dato oggettivo (condotta ed evento); ed il nesso psichico che ancora la frazione iniziale del fatto - la condotta - all'agente, più precisamente alla sua volontà.

Ma se è relativamente facile identificare i termini della struttura oggettiva del reato, il cosiddetto «fatto di reato», non altrettanto può dirsi della frazione «soggettiva» del reato. Essa viene normalmente riassunta nel termine «colpevolezza». In ciò si è voluto ricomprendere un coacervo di elementi eterogenei quali la riprovazione sociale, espressa dall'esistenza di una norma inibitrice del comportamento incriminato, la presupposta coscienza dell'agente di operare in contrasto con (o addirittura in rivolta contro) l'ordina-Page 804mento positivo, sintomo di indisciplinatezza sociale, e l'irrilevanza della sua effettiva (eventuale) ignoranza dell'esistenza di tale dato normativo.

Le valenze psicologiche che percorrono questa sezione della costruzione del reato sono di tale pregnanza da non permetterne l'accoglimento.

La fondazione del discorso su un giudizio di valore che non può essere d'altri che dell'agente e quindi la conseguente necessità di un'indagine dentro la psiche del reo, sfocia necessariamente nell'arbitrarietà del giudizio che ne discende, dato che tale giudizio diventa forzatamente il giudizio sul giudizio dell'agente e quindi, in definitiva, la sovrapposizione della valutazione critica di chi effettua tale giudizio rispetto a quella sul cui prodotto si giudica.

Mi spiego. Per stabilire le motivazioni psicologiche dell'agente, chi effettua tale valutazione deve necessariamente sostituire la propria psiche a quella del giudicato, finendo così per giudicare in base al proprio io e non a quello dell'agente.

A parte ciò vi sono tutte le connotazioni giusnaturalistiche di concetti quali «riprovevolezza», «contrasto con il sentimento della collettività» e simili, che abbiamo già avuto modo di esaminare in passato. Si deve così giungere alla reiezione della «colpevolezza» della struttura del reato. Ma la sua ablazione pura e semplice ci riporta all'oggettivazione della responsabilità, e autore più fatto non possono essere ritenuti elementi per costruire un'ipotesi di reato valida in un ordinamento evoluto.

Ecco quindi i limiti del problema. Giudicare sul fatto è poco, ma giudicare sull'elemento psicologico - quantomeno così come oggi è strutturato - è troppo infido. Di più per ora non mi sento di aggiungere.

Ma vi è un punto ulteriore che richiede un riesame. O meglio, vi è anche un'altra via per giungere alla formulazione di una riserva critica nei confronti dell'elemento soggettivo del reato. Si è infatti osservato che il concetto di «colpevolezza» si fonda sulla riprovazione che la collettività esprime, attraverso il sistema punitivo, nei confronti di un individuo che ha scientemente e volontariamente violato una norma positiva (criminale).

Tale giudizio, peraltro, ha ragione d'essere solo in forza del fatto che quella norma doveva essere conosciuta (recte poteva essere conosciuta) dall'agente: è il noto principio della conoscibilità.

Ma «conoscere» significa comprendere il significato. Orbene, quando si pone il presupposto (di valore effettuale precettizio) della conoscenza necessaria della legge penale, ossia quando si pone una praesumptio iuris et de iure, non si giunge ancora a nulla, poiché la norma in sè è indeterminata nella sua portata, visto che necessita di un processo interpretativo per poterla applicare. In realtà è fuori discussione che oggi il segmento ermeneutico è un momento ineliminabile nell'attività di utilizzazione normativa.

La validità operativa della norma è infatti in funzione dell'interpretazione che di essa viene data.

Più esattamente, la validità concreta della norma, cioè la sua utilizzazione nel singolo caso, varia secondo l'interpretazione che ne viene data.

Cade così l'imposizione di conoscenza della norma, ma cadendo trascina con sè la frazione soggettiva della struttura del reato, poiché rimette alla valutazione del singolo la possibilità di determinare se un fatto rivesta la qualifica di antigiuridicità o meno. È evidente che un fatto, ove sia antigiuridico, continuerà ad esserlo oggettivamente, rappresentando una contraddizione con una norma positiva. Il fatto ideale, cioè la fattispecie legale contenente la possibilità di proiettare la qualificazione di...

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