Nuove Sembianze D'Un Costume Antico: Dalle Regole D'Esclusione Alle Regole Di Valutazione

AutoreMarcello Busetto
Pagine154-160
154
dott
2/2017 Arch. nuova proc. pen.
DOTTRINA
NUOVE SEMBIANZE
D’UN COSTUME ANTICO:
DALLE REGOLE D’ESCLUSIONE
ALLE REGOLE DI VALUTAZIONE (*)
di Marcello Busetto
(*) Si tratta del testo della relazione tenuta al Convegno nazionale
organizzato dall’Unione delle Camere Penali Italiane e dal Centro Studi
Giuridici e Sociali “Aldo Marongiu”, dal titolo Legge e potere nel processo
penale. Pensando a Massimo Nobili, Bologna, 4 e 5 novembre 2016, i cui
atti sono in corso di pubblicazione: ad esso si è provveduto ad aggiungere
un corredo essenziale di note bibliograf‌iche.
Il settore della prova e del giudizio di fatto è sempre
stato uno snodo cruciale nel tormentato rapporto fra legge
e giudice. Dopo il tramonto delle prove legali e la parentesi
accusatoria della Rivoluzione francese, la trasformazione
dell’intimo convincimento dei giurati nel convincimento
razionale e motivato espresso da giudici professionali ha
innescato quelle declinazioni autoritarie del principio del
libero convincimento di cui Massimo Nobili seppe darci la
splendida fotograf‌ia che tutti conosciamo (1).
Sappiamo bene quanto sia ancora attuale quel libro.
La tendenza a non sbarazzarsi di conoscenze ritenute utili
all’accertamento e alla punizione del reato, anche se ac-
quisite in violazione delle regole legali non è mai morta.
Magari è stata ricollocata sotto altre insegne, incanalata
all’interno di altre “formule magiche”, diverse da quella
del libero convincimento: mi riferisco – è chiaro – alla re-
lazione al convegno di Siracusa, gli “ultimi trent’anni”, in
cui Nobili constatò amaramente (appunto trent’anni dopo
la monograf‌ia) che la versione potestativa e onnivora del
libero convincimento del giudice, non solo era ricomparsa
essa stessa, in prima persona, nelle ordinanze di rimessio-
ne e addirittura nelle sentenze costituzionali che nel 1992
avevano sconvolto il nuovo codice, ma anche aveva via via
prodotto «clonazioni», «f‌igli mentito nomine», di volta in
volta ribattezzati come «principio di conservazione» o «di
non dispersione del sapere» o di «difesa sociale» o di «fun-
zione conoscitiva del processo» e così via (2).
Una tendenza mai sopita dunque. Non lo era quindici
anni fa, al tempo di quella diagnosi (fu nel dicembre 2002)
e non lo è oggi. Anzi, in questi anni abbiamo assistito a
un vero e proprio f‌lorilegio d’interpretazioni eversive, vol-
te a recuperare – per un verso o per l’altro – conoscenze
acquisite contra legem, in nome di prioritarie esigenze
d’accertamento. Solo per fare qualche esempio, pescando
nel mucchio, basti pensare alle regole dettate per l’esame
incrociato la cui violazione viene quotidianamente de-
gradata a mera irregolarità (e non mi riferisco solo alle
domande nocive e suggestive ma anche alle più pesanti
invadenze del giudice sulle iniziative delle parti (3)). E
che dire del sorgere e consolidarsi di limiti per dedurre un
vizio pur testualmente preveduto come rilevabile anche
d’uff‌icio in ogni stato e grado del procedimento (art. 191
comma 2 c.p.p.)? Sono spuntate inutilizzabilità sanabili
(come quelle che presidiano la già slabbrata disciplina dei
termini investigativi (4)), e oneri di allegazione e dedu-
zione (alludo ovviamente al ricorso per cassazione e a va-
rie molto note sentenze delle Sezioni unite, che hanno via
via inserito ostacoli, preclusioni, prove di resistenza (5)).
L’esemplif‌icazione potrebbe continuare, ma non è esatta-
mente di questo che voglio parlare.
Al f‌ianco di tutto ciò si colloca un fenomeno ulteriore,
cui allude il titolo di questo mio intervento. Regole d’e-
sclusione probatoria che vengono, non già cancellate o in-
debolite, ma trasformate in criteri legali di valutazione. In
altri termini, lì dove trovavamo o avremmo dovuto trovare
una regola di esclusione, volta a bandire dallo scibile pro-
cessuale la conoscenza acquisita senza rispettare questa o
quella garanzia, abbiamo ritrovato una regola ben diversa,
in qualche modo opposta: quella prova – pur acquisita in
modo difforme dal metodo preteso dalla legge – può essere
impiegata, ma il giudice può farne un uso limitato; non
può fondare solo su di essa il suo convincimento, non può
usarla come prova “piena”, ma solo in presenza di riscontri
o come riscontro di altre prove.
Anche questo non è un fenomeno nuovo, ci manche-
rebbe. Appartiene anzi a un ben collaudato cliché argo-
mentativo, che si iscrive nella stessa linea del libero con-
vincimento onnivoro: nel vigore del codice del 1930 prassi
consolidate – e certo non prive di ben più risalenti radici
nella tradizione inquisitoria – legittimavano il recupero
di elementi conoscitivi irritualmente acquisiti attraverso
l’escamotage di una degradazione del loro valore proba-
torio. Anche su questo aspetto, il libro di Nobili insegna,
con ampie esemplif‌icazioni (6). Eppure, mi pare di poter
dire che esso abbia assunto oggi dimensioni insospettate e
volti nuovi, così da renderlo particolarmente insidioso. Da
un lato, infatti, i criteri legali di valutazione si sono venuti
moltiplicando, e ne sono comparsi di nuovi, che possono
dare l’impressione d’una qualche maggior forza rispetto
a quel blando simulacro, a quel limite più apparente che
reale ai poteri del giudice che sta nel modello dell’art. 192
comma 3 c.p.p. Dall’altro essi – proprio in queste nuove,
più “moderne” versioni – vengono oggi in qualche modo
nobilitati, svecchiati e affrancati da quella reminiscenza
di superate gerarchie probatorio-legali che sempre s’erano
trascinati dietro.
Alludo – forse lo si sarà capito – soprattutto a quel
nuovo criterio valutativo, ricavabile dalla giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell’uomo e che è ormai
penetrato da molti fronti nel nostro ordinamento, della
“misura esclusiva o determinante”. Un nuovo modello
di regola valutativa, apparentemente più rigoroso delle
classiche regole di corroborazione (ma in realtà – come
osserveremo – del tutto simile, se non perfettamente coin-

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