Note di udienza (SSUU 15208/10)

AutoreGianfranco Ciani
CaricaAvvocato Generale
Pagine721-724

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Le presenti note hanno ad oggetto esclusivamente la questione per la quale il ricorso, in accoglimento di una espressa richiesta della difesa, è stato rimesso alle Sezioni unite. La questione può essere così sintetizzata: Se sia ammissibile la corruzione in atti giudiziari susseguente.

In giurisprudenza sono emersi, nell’ambito della stessa sezione della Cassazione, due orientamenti contrastanti, ancorché sia prevalente la tesi della configurabilità della corruzione in atti giudiziari susseguente.

Invero, a fronte di un’unica decisione negativa – Sez. VI, 4 giugno 2006, n. 33435, Battistella – ne sono intervenute altre, successive, di segno opposto: Sez. VI, 20 giugno 2007, n. 25418, Giombini e Sez. VI, 25 maggio 2009, n. 36323, Drassich, che affrontano espressamente la problematica in esame e, la prima soprattutto, motivano diffusamente sulle ragioni del dissenso dall’approdo ermeneutico al quale era pervenuta la sentenza n. 33435 del 2006, anch’essa sorretta da un dotto ed approfondito apparato motivazionale. A questo secondo orientamento sono riconducibili altre due decisioni della VI sezione penale – 28 febbraio 2005, n. 13919, Baccarini e 9 luglio 2007, n. 35118, Fezia – ancorché in esse la problematica sottesa ad alcune affermazioni nelle medesime contenute non sia stata esplorata funditus.

La dottrina, invece, seppure con qualche autorevole eccezione, è prevalentemente orientata per la esclusione della configurabilità del reato di corruzione in atti giudiziari susseguente.

La Procura generale ritiene che sia meritevole di condivisione l’orientamento ermeneutico della giurisprudenza prevalente e più recente; conseguentemente, che al quesito posto le Sezioni unite debbano dare una risposta affermativa.

Le ragioni che sorreggono tale convinzione sono molteplici.

Il principale canone interpretativo, come si insegna fin dai banchi dell’università e come chiaramente emerge dall’art. 12, comma 1, delle preleggi, è quello letterale dovendosi prioritariamente dare alla legge il senso “fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse …”, ancorché le conclusioni alle quali si perviene con tale interpretazione debbano essere sottoposte a verifica alla stregua della mens legis, come risulta dallo stesso art. 121, nonché dell’interpretazione storica (id est: i lavori preparatori della legge) e logico-sistematica.

Un tale canone ermeneutico (quello letterale) induce ad escludere la possibilità di un’interpretazione dell’art. 319 ter c.p. anche solo parzialmente abrogatrice o limitatrice, in presenza di un rinvio puro e semplice alle disposizioni di cui agli artt. 318 e 319 c.p., che contemplano tutti i tipi di corruzione, propria (per un atto contrario ai doveri d’ufficio) ed impropria (per un atto dell’ufficio), antecedente (ricorre quando l’accordo corruttivo precede il compimento dell’atto) e susseguente (ricorre quando la promessa o la dazione di denaro o altra utilità segue il compimento dell’atto senza essere la conseguenza di un accordo preventivo); a meno che una, o più, di tali manifestazioni della corruzione presentino assoluta incompatibilità con la struttura del reato, nel senso che non siano, neppure astrattamente, configurabili. Il che, secondo l’opinione della Procura generale, non ricorre nella specie.

Devesi, infatti, rilevare che:

  1. i “fatti indicati negli articoli 318 e 319”, con cui esordisce l’art. 319 ter, si identificano con le condotte poste in essere dai pubblici ufficiali, cui fanno esclusivamente riferimento le due disposizioni richiamate; le quali contemplano delitti a concorso necessario (con la sola eccezione di cui si dirà in seguito), ancorché la punibilità dell’extraneus non sia dalle stesse sancita, bensì dal successivo art. 321, al pari di quanto avviene per la corruzione in atti giudiziari; e siffatte condotte non possono che concretizzarsi nell’atto (conforme o contrario ai doveri) dell’ufficio, più che nella ricezione o nell’accettazione della promessa di denaro o altra utilità;

  2. tale assunto trova inequivoca conferma nel comma 2 della disposizione in esame che contempla un’aggravante ad effetto speciale nel caso in cui “dal fatto deriva l’ingiusta condanna di taluno …”; tale fatto non può che essere la condotta dell’intraneus (recte: il pubblico ufficiale), l’unico che può determinare, con il compimento dell’attoPage 722 del proprio ufficio (non con la ricezione del denaro o di altra utilità) una condanna ingiusta;

  3. è bensì vero, inoltre, che quando è stata formulata la disposizione del citato art. 319 ter si son tenuti presenti, quali intranei soggetti attivi del reato, i magistrati che realizzano il reato, secondo l’id quod plerumque accidit, con un atto, non con un fatto, e questa è certamente l’ipotesi più frequente; ma non è escluso che esso possa essere commesso anche da soggetti diversi, fra i quali (come nella specie) i testi (v. Sez. I, 23 gennaio 2003, n. 6274, Chianese, m. 2235662; conformi: Sez. I, 26 novembre 2002, n. 2302, Catalano; Sez. I, 13 marzo 2003, n. 17011, Cotrufo, m. 224253), che pongono in essere fatti suscettibili di condizionare il provvedimento decisorio del giudice, non atti. La deposizione testimoniale è un fatto; atto è il verbale che la raccoglie;

  4. d’altro canto se la norma, che indubbiamente non brilla per chiarezza, avesse avuto una diversa formulazione quale, ad esempio, “se il fatti indicati negli articoli 318 e 319 sono...

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