Note in tema di rifiuto di atti di ufficio

AutoreGiuli Chiara
Pagine349-356
349
dott
Rivista penale 4/2012
DOTTRINA
NOTE IN TEMA DI RIFIUTO DI
ATTI DI UFFICIO
di Chiara Giuli
1. Il delitto di rif‌iuto e omissione di atti di uff‌icio previ-
sto dall’articolo 328 c.p., così come risulta dalla formu-
lazione attuale, è frutto di una riforma intervenuta con
la legge n. 86 del 26 aprile del 1990, che ha modif‌icato
l’originaria fattispecie introdotta nel nostro ordinamento
dal codice Rocco (1) risultata, nell’esperienza applicativa,
ineff‌icace ed anacronistica.
Prima dell’intervento riformatore, la fattispecie incri-
minava il pubblico uff‌iciale o l’incaricato di un pubblico
servizio, che indebitamente rif‌iutava, ometteva o ritarda-
va un atto dell’uff‌icio o del servizio, mentre nel secondo
comma era prevista l’ipotesi specif‌ica in cui il soggetto
attivo fosse un giudice o un funzionario del pubblico mini-
stero e l’omissione, il rif‌iuto o il ritardo, ricorrevano qua-
lora fossero integrate «le condizioni richieste dalla legge
per esercitare contro di essi l’azione civile».
La funzione del delitto in questione all’interno del co-
dice Rocco discendeva direttamente dalla realtà socio-po-
litica dell’epoca: il pubblico uff‌iciale e l’incaricato di pub-
blico servizio, in virtù di una concezione “antropomorf‌ica”
dello Stato autoritario, erano considerati la “longa manus”
dello stesso e costituivano un mezzo indispensabile per
garantire il prestigio della pubblica amministrazione (2).
Di conseguenza sanzionare l’infedeltà dei diretti referenti
del regime era indispensabile per reintegrare l’ordinamen-
to giuridico violato.
Mutato il contesto sociale, introdotta la Carta Costitu-
zionale e “riscoperti” dalla magistratura (verso la f‌ine de-
gli anni ‘50) i delitti contro la pubblica amministrazione,
l’articolo 328 venne ad assumere una funzione ben diversa
quando apparve in tutta la sua problematicità la questione
della verif‌ica, da parte della giurisdizione penale, delle
ineff‌icienze e ritardi della pubblica amministrazione (3).
Si tratta di un’ingerenza che arrivò f‌ino al punto di negare
«al potere amministrativo il gli spazi di discrezionalità di
cui aveva bisogno, per realizzare, appunto, i nuovi compiti
dello Stato» (4).
Fu così che la fattispecie di omissione o rif‌iuto di atti
di uff‌icio, negli anni Ottanta, divenne lo strumento pri-
vilegiato per scongiurare l’inerzia dei pubblici uff‌iciali e
degli incaricati di pubblico servizio i quali, per paura di
incriminazioni, iniziarono ad operare con inerte prudenza,
come conseguenza della ormai diffusa tendenza nella giu-
risprudenza a dilatare oltre ogni limite l’ambito di applica-
zione delle fattispecie di interesse privato in atti d’uff‌icio e
di abuso innominato. La prima delle due incriminava una
alquanto fumosa “presa di interesse privato” e la seconda
ricomprendeva tutti i fatti residuali compiuti al f‌ine di
arrecare un danno o procurare un vantaggio altrui: fu pro-
prio allo scopo di “spronare” l’attività della pubblica ammi-
nistrazione che la fattispecie, trovandosi al centro di una
lunga serie di casi applicativi, palesò le sue imperfezioni.
2. Per avere un’idea della profonda esigenza di riforma
che caratterizzava il settore dei reati contro la pubblica
amministrazione basti leggere la relazione al disegno di
legge n. 2441 (5), il quale darà vita, dopo un iter di quasi
tre anni, alla legge n. 86 del 1990.
Nella stessa, infatti, il Guardasigilli Vassalli (6) fa
espresso riferimento per relationem alle stesse esigenze di
riforma già espresse in un progetto datato alla legislatura
precedente (7), ed esemplif‌icate dall’allora Guardasigilli
Martinazzoli in questi termini: «É necessario [...] procede-
re ad una rivisitazione dei “reati contro la pubblica ammi-
nistrazione”, che da un lato potenzi la risposta punitiva del-
l’ordinamento di fronte alle condotte illecite poste in essere
dai soggetti rivestiti di funzioni pubbliche [...] e, dall’altro,
eviti un ingiustif‌icato sindacato del magistrato penale sul
merito delle scelte amministrative e limiti l’ambito della
repressione penale ai fatti veramente lesivi degli interessi
della pubblica Amministrazione o dei cittadini» (8).
Questo monito era il chiaro segnale che l’eccessiva in-
gerenza del potere giudiziario penale nella discrezionalità
amministrativa, problematica che si era tentato nella pre-
cedente legislatura di risolvere invano, rischiava di tramu-
tarsi in una paralisi dell’attività della pubblica amministra-
zione rendendo critici i rapporti fra giurisdizione penale e
attività amministrativa. Proprio per questo ci si rese conto
che siffatta e delicatissima necessità richiedeva di riformu-
lare le fattispecie riguardanti l’intero capo relativo ai delitti
dei pubblici uff‌iciali contro la pubblica amministrazione, al
f‌ine di circoscrivere il potere di accertamento e rilevazione
dei vizi riversandosi il problema sul piano dell’interpreta-
zione dei termini linguistici richiamati dalla norma penale,
nel caso in cui le condotte penalmente rilevanti avessero
ad oggetto atti amministrativi.
3. La fattispecie originaria si presentava con una formu-
lazione alquanto scarna, imperniata nella quasi totalità sul
concetto di “atto di uff‌icio”, in quanto oggetto dell’indebito
rif‌iuto, omissione o ritardo: dapprima questa nozione, con-
formemente alla concezione della pubblica amministra-
zione come “longa manus” dello Stato, si era prestata ad una
interpretazione “formalistica” che ricostruiva la locuzione
senza alcuna distinzione tra attività “interna” ed “esterna”
della pubblica amministrazione, con conseguente commi-
stione dell’illecito penale e dell’illecito disciplinare (9).
Negli anni Sessanta e Settanta, poi, alcune pronunce
di merito contribuirono a rileggere la fattispecie partendo
da una lettura “sostanzialistica” alla luce delle nuove di-
sposizioni costituzionali dalle quali si deduce che oggetto
di tutela del delitto sia l’attività della pubblica ammini-
strazione in senso dinamico e non la sua organizzazione

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