Le neuroscienze entrano nel processo penale
Autore | Antonio Forza |
Pagine | 75-79 |
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@1. Alcune premesse
La sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Trieste, che tanto clamore ha suscitato, viene depositata a soli tre mesi di distanza dall’entrata in vigore della L. 85/2009 che ha istituito la banca dati nazionale del DNA per la raccolta del profilo genetico di soggetti indagati o imputati, sottoposti a custodia cautelare, o a condannati che stanno scontando la pena in carcere.
La genetica, come era prevedibile, è dunque destinata ad entrare, a pieno titolo, nel processo penale e, a quanto pare, non solo a fini identificativi o ricostruttivi.
I mass-media hanno dato un particolare risalto a questa sentenza, anche se pochi sono stati i commentatori che hanno colto le reali implicazioni di tale decisione.
C’è chi ha parlato di razzismo per aver la Corte d’Assise di Appello di Trieste riconosciuto a questo imputato di origine magrebina, secondo quanto spiegato dai periti, una particolare “vulnerabilità genetica”, che avrebbe giustificato una riduzione di pena nella misura massima del terzo, rispetto a quanto stabilito dal giudice di prime cure1.
Un parlamentare ha addirittura ritenuto di presentare al Ministro della Giustizia un’interpellanza urgente per sollecitare “iniziative ispettive”2.
Al di là comunque dei commenti, più o meno puntuali, da parte degli organi di stampa, crediamo che questa decisione sia importante perché inaugura nel nostro paese l’ingresso ufficiale delle Neuroscienze nel processo penale ed un diverso approccio alla valutazione del comportamento umano3.
Solo qualche mese fa contavamo che tale ingresso fosse proiettato in un futuro meno prossimo4. La Curia Triestina ci ha però positivamente sorpresi.
La sentenza, come hanno osservato due attenti criminologi, proprio in questa occasione, non ha fatto altro che percorrere una strada che sembra oggi obbligata per la giustizia, non solo dai risultati attuali delle neuroscienze, ma anche da un nuovo approccio che considera gli individui particolarmente vulnerabili in talune manifestazioni comportamentali, non pienamente controllate o controllabili dalla sua volontà5.
La Corte d’Assise d’Appello di Trieste era chiamata a prendere posizione sulle diverse e contrastanti conclusioni cui erano pervenuti tre diversi psichiatri, sentiti in primo grado dal G.U.P. presso il Tribunale di Udine.
Di tutto ciò non vi è quasi menzione sugli organi di stampa. Vi era stato, infatti, disaccordo tra perito d’ufficio e consulenti di parte e tra lo stesso perito ed il G.U.P. in ordine alle diverse valutazioni in ordine alla capacità d’intendere e di volere dell’imputato, ritenuto dal perito d’ufficio grandemente scemato nella capacità di intendere e totalmente incapace di volere.
Diverse erano state le conclusioni dei consulenti di parte: per l’accusa si trattava di un’infermità derivante da condizioni grandemente scemate di volizione e di comprensione, e quindi residuava una capacità di intendere e di volere, per la difesa, viceversa, sussisteva una forma psicotica talmente grave da abolire totalmente la sua capacità d’intendere e di volere.
Tutti gli esperti erano intervenuti sul caso con un approccio diagnostico, per così dire “tradizionale”: il colloquio psichiatrico e la somministrazione di alcuni test (di personalità: quale il Minnesota (MMPI) ed il Rorschach ed intellettivo: le Matrici Progressive di Raven).
Bene, dunque, la Corte di Trieste disponeva, ai sensi dell’art. 603 c.p.p., una nuova perizia, conferendo l’incarico a due eminenti cattedratici, rispettivamente dell’Università di Pisa e dell’Università di Padova (il primo esperto di Neuroscienze Molecolari, il secondo di NeuropsicologiaPage 76 Clinica) per rispondere al quesito circa le reali condizioni di infermità dell’imputato al momento del fatto.
Peraltro, la storia clinica di quest’ultimo era stata punteggiata da diversi ricoveri in strutture psichiatriche, il che faceva ragionevolmente propendere per la sussistenza di condizioni psichiche compromesse da patologie di una certa gravità.
L’approccio dei nuovi periti si doveva caratterizzare per una metodologia basata sulle più recenti acquisizioni delle Neuroscienze cognitive e molecolari, con il ricorso a tecniche di imaging sul funzionamento cerebrale e ad indagini genetiche.
È noto come le Neuroscienze cognitive mirino ad enfatizzare la relazione tra sintomi psicopatologici e alterate attività cerebrali e ciò al fine di arrivare ad una descrizione delle dinamiche cerebrali patologiche sottostanti all’eventuale manifestazione clinica.
La Neuropsicologia, che nell’ambito delle neuroscienze ha avuto un enorme sviluppo grazie anche all’introduzione di tecniche di neuroimmagine, in particolare, è oggi in grado di descrivere l’architettura anatomica e funzionale delle varie funzioni cognitive, definendo con maggior precisione le basi neurologiche dell’attività mentale e con esse le conseguenze, sia sul piano cognitivo che comportamentale di un’alterazione psichica.
La Genetica molecolare, disciplina dalle sconfinate prospettive derivanti dallo studio del genoma umano, ha permesso negli ultimi tempi di formulare delle ipotesi che consentono di spiegare almeno in parte il comportamento patologico degli individui - attraverso l’identificazione di polimorfismi - che predispongono ad una vulnerabilità psichiatrica i soggetti portatori6.
Le conoscenze raggiunte sembrano rivestire un interesse che va ben al di là dell’ambito della ricerca medica e delle applicazioni cliniche.
@2. La crisi della psichiatria e del concetto di imputabilità
È noto che nel ricostruire la nozione di “infermità” e di “vizio di mente” (artt. 88 e 89 c.p.), la giurisprudenza si è sempre richiamata al concetto di malattia mentale elaborato dalla psicopatologia. Ed è parimenti noto che, essendo tale scienza caratterizzata dalla presenza di differenti paradigmi psicopatologici, anche il concetto di malattia mentale è risultato differentemente delineato, a seconda della prospettiva teorica scelta come punto di riferimento.
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