La natura della mediazione tra attività giuridica in senso stretto e mandato

AutoreGabriele Chiarini
Pagine157-163

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@1. Premessa

La sentenza in commento propone un deciso superamento dell’annoso dibattito relativo alla natura della mediazione - che la Corte reputa senz’altro un istituto non negoziale - ed individua nel “contatto sociale” la fonte delle obbligazioni che incombono sul mediatore e che, se violate, ne determinano la responsabilità contrattuale.

Nel contempo, la mediazione cd. atipica viene ricondotta nell’alveo del mandato, con la conseguenza che - in presenza di un incarico conferito da una delle parti (mandante) - il mediatore (mandatario) perderebbe il diritto di richiedere la provvigione all’altra parte, nei confronti della quale risponderebbe peraltro ai sensi dell’art. 2043 c.c.

L’autore tenta di esaminare luci ed ombre della pronuncia.

@2. Le luci (soffuse). Il sistema della mediazione tipica disegnato dalla Cassazione ed il “contatto sociale” come fonte delle obbligazioni del mediatore

Com’è noto, la natura contrattuale o non contrattuale della mediazione è assai discussa. Lo stesso legislatore,Page 158 del resto, non ha preso posizione sul punto, limitandosi a dare la nozione del mediatore e non della mediazione1.

Diversamente dalla mediazione cd. atipica2, considerata come sicuramente negoziale, la mediazione cd. ordinaria o tipica di cui all’art. 1754 c.c. viene ricondotta talvolta ad una figura contrattuale nominata3, talvolta ad una attività giuridica in senso stretto4.

Bene, la sentenza in commento aderisce senza riserve alla tesi secondo la quale, prescindendo la mediazione tipica da un sottostante obbligo a carico del mediatore (perché posta in essere “in mancanza di un apposito titolo”), la “messa in relazione” delle parti ai fini della conclusione di un affare dovrebbe essere qualificata senz’altro come giuridica in senso stretto, e non come negoziale.

Richiamando, dunque, l’antica distinzione tra atto e negozio5, tale ricostruzione è reputata preferibile perché gli effetti giuridici che l’attività del mediatore produce risultano predeterminati non già da un regolamento di interessi divisato dalle parti in sede contrattuale, bensì dallo stesso legislatore.

Sì che il mediatore, una volta che sia stato concluso l’affare tra i contraenti, acquisterebbe il diritto alla provvigione non in virtù di un contratto, ma sulla base di un mero comportamento legalmente tipizzato, nel quale andrebbe ravvisato uno di quegli atti o fatti idonei - ex art. 1173 c.c, al pari dei contratti o dei fatti illeciti - a determinare la nascita del rapporto obbligatorio con le parti, nell’àmbito del quale si collocherebbe altresì il dovere del mediatore di comunicare alle stesse, ai sensi dell’art. 1759 c.c., le circostanze a lui note relative alla valutazione e alla sicurezza dell’affare.

Ancora: benché prima facie - prosegue la Corte - la responsabilità del mediatore in ordine alla violazione di tale ultimo dovere possa sembrare di natura extracontrattuale, essa dovrebbe a ben vedere reputarsi contrattuale, giacché fondata sul cd. “contatto sociale”6, ravvisabile nella situazione di fatto che si realizzerebbe tra l’operatore professionale, soggetto a specifici requisiti formali ed abilitativi, e coloro che su tali requisiti ripongono particolare affidamento, cioè a dire le parti dell’affare intermediato. Dunque, come il medico nei confronti del paziente, così il mediatore risponderebbe nei confronti dei propri “clienti” secondo le regole di cui agli artt. 1218 ss. c.c., pur in assenza di un preventivo accordo negoziale, in virtù del rapporto qualificato venutosi ad instaurare7.

Da tale configurazione deriva, naturalmente, la triplice conseguenza relativa all’onere della prova (nel senso che è il mediatore a dover dimostrare, per liberarsi dalla responsabilità, l’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, potendo invece le parti limitarsi ad allegare l’inadempimento), al termine di prescrizione (che è quello ordinario decennale e non quello quinquennale della responsabilità ex art. 2043 c.c.), nonché - seppure la Corte ometta di sottolinearlo - alla irrisarcibilità del danno oltre la misura di quanto poteva prevedersi nel tempo in cui l’obbligazione è sorta (art. 1225 c.c.).

@3. Le ombre. Mediazione atipica, mandato e soggetti obbligati al pagamento della provvigione

Accanto alla mediazione cd. ordinaria o tipica, la giurisprudenza suole considerare - come accennato - una mediazione atipica di tipo negoziale, ravvisabile allorquando il mediatore sia esplicitamente incaricato di svolgere attività di promozione di un affare, potendosi poi ulteriormente distinguere tra mediazione atipica unilaterale e bilaterale (secondo che l’incarico sia conferito da una soltanto oppure da entrambe le parti interessate all’affare)8, nonché tra mediazione atipica senza e con esclusiva (secondo che l’affare possa o non possa essere contemporaneamente promosso anche da altri mediatori), ferma restando la libertà ex art. 1322 c.c. di arricchire il contenuto del contratto con altre pattuizioni come, ad esempio, quella di irrevocabilità temporanea dell’incarico9.

Nondimeno, la prestazione caratteristica resa tanto dal mediatore tipico quanto da quello atipico è sempre stata fatta oggetto di unitaria considerazione10, con la conseguenza che alla disciplina generale della mediazione tipica si è rimandato per colmare eventuali lacune delle pattuizioni contrattuali di una mediazione atipica11.

A differente conclusione sul punto perviene, invece, la decisione in rassegna, la quale reputa opportuno ricondurre la mediazione di tipo contrattuale non già ad una figura atipica, bensì ad un vero e proprio mandato, dovendosi ravvisare nella fattispecie in parola quell’affidamento di un incarico “col quale una parte si obbliga a compiere uno più atti giuridici per conto dell’altra” che darebbe luogo -per definizione - al contratto di cui all’art. 1703 c.c.

Tale ricostruzione - che troverebbe fondamento sia nella prassi contrattuale degli operatori12, sia nella disciplina codicistica13, sia ancora nella legislazione speciale14 - comporta, quale dirompente corollario, che il mediatore-mandatario potrebbe vantare il diritto alla provvigione-compenso (sempre in via subordinata all’iscrizione nel ruolo professionale di cui alla legge n. 39 del 1989) non già nei confronti di ciascuna delle parti, ma soltanto verso il proprio mandante, ovverosia la parte dalla quale abbia ricevuto l’incarico, in linea con la previsione degli artt. 1709 e 1720 c.c.

Siffatta ipotesi ermeneutica non convince.

In realtà, a prescindere dalla natura - contrattuale o no - della mediazione, il tratto distintivo di tale figura (tanto nella versione tipica quanto in quella atipica) rispetto al mandato deve essere ravvisato nella doverosità dell’attività che il mandatario si impegna a compiere in forza dell’incarico ricevuto, laddove il mediatore resta tendenzialmente libero di attivarsi per mettere in relazione le parti dell’affare, alla cui conclusione è subordinato il suo diritto alla provvigione15.

In tal senso è, d’altronde, orientata la prevalente giurisprudenza, che sottolinea come il mediatore abbia laPage 159 mera facoltà (o, piuttosto, l’onere, se vuol riscuotere la provvigione) di interporsi tra i contraenti per appianarne le eventuali divergenze e farli pervenire alla conclusione dell’affare, mentre il mandatario ha l’obbligo di eseguire la prestazione oggetto del mandato16.

Non sembra, dunque, condivisibile la tesi - prospettata dalla Suprema Corte - secondo cui il semplice fatto di avere ricevuto incarico da una delle parti al fine di promuovere l’affare precluderebbe ipso facto al mediatore la possibilità di richiedere la provvigione all’altra parte.

Si tratta, a ben vedere, di valutare l’incidenza del requisito della cd. imparzialità del mediatore17, la quale “non consiste in una generica ed astratta equidistanza dalle parti, né può escludersi per il solo fatto che il mediatore prospetti a taluna di queste la convenienza dell’affare, ma va intesa, conformemente al dettato dell’art. 1754 c.c., come assenza di ogni vincolo di mandato, di prestazione d’opera, di preposizione institoria e di qualsiasi altro rapporto che renda riferibile al dominus l’attività dell’intermediario”18.

La stessa giurisprudenza, del resto, tende a riconoscere il diritto del mediatore alla provvigione - a prescindere dall’eventuale rapporto intercorrente con una delle parti - ogniqualvolta lo stesso abbia svolto attività utile nei confronti di entrambi i contraenti, quando essi siano stati in grado di rilevarla e di valutare l’opportunità di servirsene19. Perciò la parte che si sia giovata consapevolmente dell’attività mediatrice deve essere considerata, in linea di principio, tenuta al pagamento della provvigione, anche qualora il mediatore avesse ricevuto incarico dall’altra parte di promuovere l’affare20.

@4. segue. oneri probatori del mediatore tipico

Tra i molteplici obiter dicta formulati nella sentenza in commento, pare opportuno riservare una brevissima riflessione a quello secondo il quale “è evidente che l’attore che agisce per ottenere la provvigione di una mediazione da lui effettuata ha l’onere di dimostrare di non aver agito in posizione di mandatario di una delle parti”.

Invero il principio, che finisce per addossare al mediatore un onere probatorio irragionevolmente gravoso21, non può essere condiviso.

In conformità al principio generale di cui all’art. 2697 c.c., il mediatore che voglia far valere in giudizio il proprio diritto alla provvigione dovrà limitarsi a provare i fatti che ne costituiscono il fondamento (e cioè l’aver messo in contatto due o più parti per la conclusione di un affare).

Spetterà semmai alla parte che voglia sottrarsi al pagamento della provvigione allegare - e dimostrare - che l’attore abbia agito senza l’imparzialità del mediatore e, quindi, quale mandatario dell’altra parte (nel senso sopra precisato).

Sarà compito del giudice di merito, infine, qualificare la vicenda22 in termini di mediazione o di...

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