Natura della decisione del senato

AutoreYuri González Roldán
Pagine373-413

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@1. Il senatus consultum Q. Iulio Balbo et P. Iuventio Celso consulibus factum e l’oratio riportata da Paolo in D. 5.3.22 e D. 5.3.40 pr.

Una volta considerati il contenuto di ognuno dei paragrafi, che formano parte del senatoconsulto, la sua interpretazione giurisprudenziale e la sua estensione oltre il campo di applicazione originario, passiamo ora a trattare di alcuni problemi relativi al provvedimento nel suo complesso.

Come abbiamo fatto notare nel primo capitolo, con il termine libello complexus esset, menzionato nella parte introduttiva del senatoconsulto, si fa riferimento alla proposta indirizzata da Adriano ai consoli, che si trova racchiusa in un libello, in quanto l’imperatore aveva preferito rivolgersi a questi anziché pronunciare personalmente un’oratio in senato. I criteri, proposti dall’imperatore e destinati ad essere presentati dai consoli ai patres, sembrerebbero trovarsi in due passi di Paolo, libro vicensimo ad edictum in D. 5.3.22 e D. 5.3.40 pr., i quali citano un’oratio principis in connessione al senatoconsulto.

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In D. 5.3.22 il giurista esordisce con le parole nam et in oratione divi Hadriani ita est, riportando poi una parte del suo testo alla lettera:

...”Dispicite, patres conscripti, numquid sit aequius possessorem non facere lucrum et pretium, quod ex aliena re perceperit, reddere, quia potest existimari in locum hereditariae rei venditae pretium eius successisse et quodammodo ipsum hereditarium factum1 “...

Qui l’imperatore invita i patres conscripti (dispicite patres conscripti) a valutare la questione giuridica se sia più equo che il possessore non tragga un lucro (numquid – facere lucrum) e restituisca quindi il prezzo ricevuto per la vendita della cosa ereditaria altrui al suo titolare (et pretium – reddere), perché tale somma poteva considerarsi surrogata alla cosa venduta, (quia – successisse), diventando in un certo senso anch’esso parte del patrimonio ereditario (et quodammodo ipsum hereditarium factum).

Un altro riferimento all’oratio Paolo lo esprime in D. 5.3.40 pr., in cui, a differenza di D. 5.3.22, non cita letteralmente le parole, ma riassume il contenuto della parte presa in esame:

Illud quoque quod in oratione divi Hadriani est, ut post acceptum iudicium id actori praestetur, quod habiturus esset, si eo tempore quo petit restituta esset hereditas...2.

L’imperatore propone di stabilire che, dopo la litis contestatio, l’ammontare dell’eredità da prestarsi all’attore sia quello corrispondente al momento in cui essa era stata chiesta giudizialmente.

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Il primo problema dunque da affrontare e risolvere consiste nel determinare se l’oratio, indicata da Paolo in D. 5.3.22 e D. 5.3.40 pr., possa collegarsi al senatus consultum Q. Iulio Balbo et P. Iuventio Celso consulibus factum o invece si occupi di un caso diverso, come non poca parte della dottrina ha ritenuto3.

@2. Libellus-oratio

Appleton nega il rapporto tra il senatoconsulto e l’oratio4, perché in D. 5.3.20.6 si usa la parola libello invece di oratione, dimostrandosi in questo modo che il senatus consultum Q. Iulio Balbo et P. Iuventio Celso consulibus factum non ebbe carattere di atto legislativo votato dal senato e proposto dall’imperatore mediante oratio, bensì di semplice richiesta di un parere rivolta da Adriano al senato e, come tale, contenuta nel libellus; chi parla nel senatoconsulto è il senato e parla da solo (de qua re ita censuerunt), rispondendo ad una petizione dell’imperatore (libellus), non originata da nessuna oratio principis. Se realmente il senatus consultum Q. Iulio Balbo et P. Iuventio Celso consulibus factum fosse stato un senatoconsulto emesso ex auctoritate Hadriani, il testo avrebbe dovuto impiegare il termine oratione.

Effettivamente, come abbiamo osservato, in D. 5.3.20.6, dove è riportata la parte introduttiva del senatus consultum Q. Iulio Balbo et P. Iuventio Celso consulibus factum, si afferma libello complexus esset, senza riferimenti ad un’oratio, come invece è accaduto in altri senatoconsulti5; ma, secondo quanto abbiamoPage 376 cercato di dimostrare (cap. I), il termine libellus assume il significato di dossier o fascicolo, inclusivo anche di eventuali iniziative del principe esposte in forma scritta come orationes (Suet., Aug. 84.1). In conclusione, ci sembra di poter affermare la debolezza della tesi che respinge, sulla sola base dell’uso della parola libellus in luogo di oratio, il collegamento tra le due testimonianze di Paolo ed il senatoconsulto.

@@a. Il contenuto dell’oratio

Compiuta una prima puntualizzazione circa il rapporto tra il senatus consultum Q. Iulio Balbo et P. Iuventio Celso consulibus factum e l’oratio, possiamo ritornare all’analisi di D. 5.3.22, dove, come abbiamo visto, Paolo riferisce testualmente una parte di quest’ultima, introducendola con i termini: nam et in oratione divi Hadriani ita est.

La sua interpretazione non può prescindere dal contesto nel quale viene riportata dal giurista. La questione che egli tratta, infatti, è quella di un possessore di buona fede che abbia tanto il pretium quanto la cosa, ad esempio, perché dopo la vendita l’abbia riacquistata; in tale situazione, in effetti, sorge il dubbio se egli possa scegliere di dare la cosa (benché nel frattempo deterioratasi) invece del prezzo: si et rem et pretium habeat bonae fidei possessor, puta quod eandem redemerit: an audiendus sit, si velit rem dare, non pretium?6 . Mentre per il possessore di mala fede è certo che la scelta spetti all’attore (in praedone dicimus electionem esse debere actoris), per quello di buona fede la soluzione propo-Page 377sta da Paolo si fonda sullo spirito dell’oratio, che nega a costui la possibilità di ottenere un lucro: possessorem non facere lucrum, dovendo perciò restituire la res e tutto l’utile che gli fosse derivato dalla sua vendita: oportet igitur possessorem et rem restituere petitori et quod ex venditione eius rei lucratus est 7.

Dal momento che, come possiamo vedere, il problema affrontato dal giurista si focalizza sulla responsabilità del possessore di buona fede, basare la sua soluzione sull’oratio, implica sicuramente che la stessa concernesse questo tipo di possessore. I criteri dettati dall’imperatore (e sottoposti al senato) sono: il possessore non può ottenere un lucro dalle cose ereditarie altrui e il prezzo ricevuto dalla vendita di esse deve restituirsi al loro titolare, in quanto lo stesso forma parte del patrimonio ereditario.

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Certamente dalla breve citazione che Paolo fa dell’oratio principis mancano elementi tali da permettere di collegarla a un problema di vindicatio dei caduca, ma dobbiamo ricordare, come abbiamo visto nel capitolo II, che l’applicazione non soltanto della ‘surrogazione’ del prezzo dell’eredità, ma anche della trasmissione delle azioni è una realtà che trova origine molto prima del 129 d.C. con riferimento alla petizione d’eredità8. Se il problema avesse riguardato quest’ultima azione, pertanto, non ci sarebbero state ragioni per sottoporre al senato una questione già risolta in giurisprudenza, perciò crediamo che il contenuto dell’oratio dovesse collegarsi a specifici aspetti della controversia dell’eredità dei beni di Rustico.

Con riguardo alla questione che l’imperatore solleva nell’oratio: se sia più equo che il possessore non tragga un lucro (dispicite, patres conscripti, numquid sit aequius possessorem non facere lucrum...), il senato risponde così (D. 5.3.20.6c): quelli, che avessero avuto giuste cause per considerarsi titolari dei beni, dovevano essere condannati nei limiti in cui si fossero arricchiti in base al loro possesso: (...eos, qui iustas causas habuissent, quare bona ad se pertinere existimassent, usque eo dumtaxat, quo locupletiores ex ea re facti essent)9.

Come possiamo constatare, esiste un rapporto logico tra l’oratio e il § 6c del senatus consultum Q. Iulio Balbo et P. Iuventio Celso consulibus factum in relazione alla locupletatio (anche se il soggetto nella prima è al singolare e nella seconda al plurale); alla domanda: è più equo che il possessore non ne derivi un lucro? La risposta è che chi per una giusta causa avesse creduto che i beni gli appartenessero doveva rispondere nella misura del suo arricchimento; vale a dire, non era equo che il possessore lucrasse ed era così tenuto a restituire i vantaggi economici ottenuti dal possesso.

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Con riferimento alla ‘surrogazione’ del prezzo alle cose ereditarie, il principe domanda se il possessore debba consegnare al titolare il prezzo ricevuto dalla vendita di una cosa di quest’ultimo (et pretium-reddere), perché, può considerarsi che ne abbia preso il posto (quia-successisse), diventando in un certo senso parte del patrimonio ereditario (et quodammodo ipsum hereditarium factum); i patres su questo punto deliberano, disponendo, in D. 5.3.20.6b, che coloro ai quali l’eredità fosse stata richiesta (item placere, a quibus hereditas petita fuisset), nel caso in cui avessero perso il giudizio (si adversus eos iudicatum esset), dovessero restituire i prezzi conseguiti dalle cose ereditarie vendute (pretia, quae ad eos rerum ex hereditate venditarum pervenissent), anche se queste fossero venute meno o fossero uscite dall’eredità prima che la stessa fosse richiesta (etsi eae ante petitam hereditatem deperissent deminutaeve fuissent, restituere debere).

Il senato non si è limitato ad accettare la ‘surrogazione’ del prezzo alla cose ereditarie (che, in definitiva, proponeva Adriano), ma ha aggiunto che i prezzi si sarebbero dovuti consegnare nonostante le cose ereditarie fossero perite o venute meno ante petitam hereditatem. Tale aggiunta permette di confermare il criterio stabilito nell’oratio, secondo cui il prezzo entrava in effetti anch’esso a far parte del patrimonio ereditario. Si è già rilevato il carattere generale ed astratto delle enunciazioni dell’oratio imperiale, implicito nell’uso dei sostantivi al singolare (possessorem, pretium), contrapposto alla loro applicazione...

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