n. 52 SENTENZA 27 gennaio - 10 marzo 2016 -

ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite civili, 28 giugno 2013, n. 16305, promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 19 marzo 2015, depositato in cancelleria il 26 marzo 2015 ed iscritto al n. 5 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2014, fase di merito. Visto l'atto di intervento della Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR);

udito nell'udienza pubblica del 26 gennaio 2016 il Giudice relatore Giorgio Lattanzi, sostituito per la redazione della decisione dal Giudice Nicolo' Zanon;

uditi l'avvocato dello Stato Giovanni Palatiello per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Fabio Corvaja e Stefano Grassi per l'Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR). Ritenuto in fatto 1.- Con ricorso depositato in data 22 settembre 2014, il Presidente del Consiglio dei ministri, in proprio e a nome del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Corte di cassazione, sezioni unite civili, in relazione alla sentenza 28 giugno 2013, n. 16305, con la quale e' stato respinto il ricorso per motivi attinenti alla giurisdizione, proposto dallo stesso Presidente del Consiglio avverso la sentenza del Consiglio di Stato, sezione quarta, 18 novembre 2011, n. 6083. Espone il ricorrente che l'Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (d'ora in avanti «UAAR»), associazione non riconosciuta, costituita con atto notarile nel 1991, aveva proposto ricorso avanti al Tribunale amministrativo regionale del Lazio chiedendo l'annullamento della delibera del Consiglio dei ministri del 27 novembre 2003, la quale, recependo il parere dell'Avvocatura generale dello Stato, decideva di non avviare le trattative finalizzate alla conclusione dell'intesa ai sensi dell'art. 8, terzo comma, della Costituzione, ritenendo che la professione di ateismo non potesse essere assimilata ad una confessione religiosa. Con sentenza 31 dicembre 2008, n. 12539, il TAR Lazio, sezione prima, dichiarava inammissibile, per difetto assoluto di giurisdizione, il ricorso proposto dall'UAAR avverso la deliberazione del Consiglio dei ministri, ritenendo che la determinazione impugnata abbia natura di atto politico «non giustiziabile» (ai sensi dell'art. 31 del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, recante «Approvazione del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato», ora art. 7, comma 1, ultimo periodo, del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, denominato «Attuazione dell'articolo 44 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo»). Il Consiglio di Stato, sezione quarta, con sentenza n. 6083 del 2011, riformando la decisione di primo grado, affermava, invece, la giurisdizione del giudice amministrativo, ritenendo che la scelta relativa all'avvio delle trattative non abbia natura politica, ma presenti i tratti tipici della discrezionalita' valutativa come ponderazione di interessi: da un lato, quello dell'associazione istante ad addivenire all'intesa, dall'altro, l'interesse pubblico alla selezione dei soggetti con cui avviare le trattative. Secondo il Consiglio di Stato, l'accertamento circa la riconduzione dell'organizzazione richiedente alla categoria delle "confessioni religiose" non sarebbe insindacabile, e quanto meno l'avvio delle trattative sarebbe obbligatorio qualora si pervenisse ad un giudizio di qualificabilita' del soggetto istante come confessione religiosa, salva restando la facolta' del Governo di non stipulare l'intesa all'esito delle trattative ovvero di non tradurre in legge l'intesa medesima. Le parti venivano quindi rimesse avanti al primo giudice. Avverso tale decisione, il Presidente del Consiglio dei ministri proponeva ricorso ai sensi dell'art. 111, ultimo comma, della Costituzione, alle sezioni unite della Corte di cassazione, sostenendo che il rifiuto di avviare le trattative per la conclusione dell'intesa ex art. 8, terzo comma, Cost. debba qualificarsi "atto politico", come tale insindacabile. Le sezioni unite della Corte di cassazione, con la ricordata sentenza n. 16305 del 2013 - che ha dato origine al presente conflitto - respingevano il ricorso, affermando che l'accertamento preliminare relativo alla qualificazione dell'istante come confessione religiosa costituisca esercizio di discrezionalita' tecnica da parte dell'amministrazione, come tale sindacabile in sede giurisdizionale. Ponendo in relazione il primo comma dell'art. 8 Cost., che garantisce l'eguaglianza delle confessioni religiose davanti alla legge, con il successivo terzo comma, che assegna all'intesa la regolazione dei rapporti tra lo Stato e le confessioni diverse da quella cattolica, la Corte di cassazione riteneva che la stipulazione dell'intesa sia volta anche alla migliore realizzazione dei valori di eguaglianza tra confessioni religiose. Per tale ragione, assumeva che l'attitudine di un culto a stipulare le intese con lo Stato non possa essere rimessa all'assoluta discrezionalita' del potere esecutivo, pena - appunto - il sacrificio dell'eguale liberta' tra confessioni religiose. Pur non ritenendolo un argomento decisivo, la Corte di cassazione osservava, tra l'altro, che le intese «si stanno atteggiando, nel tempo, in guisa di normative "per adesione", innaturalmente uniformandosi a modelli standardizzati». Ne conseguirebbe che il Governo avrebbe l'obbligo giuridico di avviare le trattative ex art. 8 Cost. per il solo fatto che una qualsiasi associazione lo richieda, e a prescindere dalle evenienze che si possano verificare nel prosieguo dell'iter legislativo. Successivamente a tale pronuncia, il TAR Lazio, sezione prima, con sentenza 3 luglio 2014, n. 7068, respingeva nel merito il ricorso dell'UAAR, escludendo che la valutazione compiuta dal Governo in ordine al carattere non confessionale dell'Associazione ricorrente sia «manifestamente inattendibile o implausibile, risultando viceversa coerente con il significato che, nell'accezione comune, ha la religione». Cionondimeno, il Presidente del Consiglio dei ministri, non condividendo i principi affermati dalle sezioni unite della Corte di cassazione e ritenendo che il rifiuto di avviare le trattative finalizzate alla stipulazione dell'intesa sia un atto politico, espressione della funzione di indirizzo politico che la Costituzione assegna al Governo in materia religiosa e, come tale, sottratto al sindacato giurisdizionale, ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri nei confronti della Corte di cassazione. In ordine all'ammissibilita' del conflitto, il ricorrente sostiene che sarebbe pacifica la legittimazione soggettiva del Presidente del Consiglio dei ministri a dichiarare definitivamente la volonta' del potere cui appartiene, ai sensi dell'art. 92, primo comma, Cost. Nel caso di specie, poiche' il rifiuto all'avvio delle trattative sarebbe stato opposto dal Consiglio dei ministri, al quale - ai sensi dell'art. 2, comma 3, lettera l), della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell'attivita' di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri) - sono riservate le determinazioni sulle intese, ne conseguirebbe la qualificazione di potere dello Stato in capo al Consiglio dei ministri e al suo Presidente. In ordine alla legittimazione passiva, le sezioni unite della Corte di cassazione sarebbero competenti a dichiarare la definitiva volonta' del potere giudiziario, in considerazione dell'efficacia vincolante per tutti i giudici comuni, anche in altri processi, delle decisioni da essa assunte in ordine alla giurisdizione a seguito di ricorso ai sensi dell'art. 111, ultimo comma, Cost. Quanto al profilo oggettivo, il ricorrente osserva come la Corte di cassazione, con la sentenza n. 16305 del 2013, avrebbe illegittimamente esercitato il suo potere giurisdizionale, menomando la funzione di indirizzo politico che la Costituzione assegna al Governo in materia religiosa (artt. 7, 8, terzo comma, 92 e 95 Cost.), funzione «assolutamente libera nel fine» e quindi «insuscettibile di controllo da parte dei giudici comuni». Nel merito, il ricorrente osserva come non possa essere condivisa la conclusione delle sezioni unite in ordine alla doverosita' dell'avvio delle trattative per la conclusione dell'intesa ex art. 8, terzo comma, Cost. Tale ultima disposizione, infatti, costituirebbe norma sulle fonti, dal momento che le intese integrerebbero il presupposto per l'avvio del procedimento legislativo finalizzato all'approvazione della legge che regola i rapporti tra Stato e confessione religiosa, e pertanto parteciperebbero della stessa natura, di atto politico libero, delle successive fasi dell'iter legis. La dottrina avrebbe, altresi', chiarito che le intese, in quanto dirette all'approvazione di una legge, coinvolgerebbero la responsabilita' politica del Governo, ma non la responsabilita' dell'amministrazione. In sostanza - sostiene il ricorrente - poiche' l'omesso esercizio della facolta' di iniziativa legislativa in materia religiosa rientra tra le determinazioni politiche sottratte al controllo dei giudici comuni, cosi' come il Governo e' libero di non dare seguito alla stipulazione dell'intesa omettendo di esercitare l'iniziativa per l'approvazione della legge prevista dall'art. 8, terzo comma, Cost., a maggior ragione dovrebbe essere libero, nell'esercizio delle sue valutazioni politiche, di non avviare alcuna trattativa. Ancora, si osserva che se il Governo puo' recedere dalle trattative o comunque e' libero, pur dopo aver stipulato l'intesa, di non esercitare l'iniziativa legislativa per il recepimento dell'intesa con legge, cio' significa che il preteso "diritto" all'apertura delle trattative e', in realta', un «interesse di mero fatto non qualificato, privo di protezione...

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