n. 33 SENTENZA 8 novembre 2017- 21 febbraio 2018 -

ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 12-sexies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalita' mafiosa), convertito, con modificazioni, in legge 7 agosto 1992, n. 356, promosso dalla Corte d'appello di Reggio Calabria, nel procedimento a carico di R. V., con ordinanza del 17 marzo 2015, iscritta al n. 154 del registro ordinanze 2015 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell'anno 2015. Visti l'atto di costituzione R. V., nonche' l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 7 novembre 2017 il Giudice relatore Franco Modugno;

udito l'avvocato dello Stato Maurizio Greco per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.- Con ordinanza del 17 marzo 2015, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 12-sexies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalita' mafiosa), convertito, con modificazioni, in legge 7 agosto 1992, n. 356, nella parte in cui include il delitto di ricettazione tra quelli per i quali, nel caso di condanna o di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 del codice di procedura penale, e' sempre disposta la speciale confisca prevista dal medesimo art. 12-sexies. La Corte rimettente riferisce che, con ordinanza depositata l'11 dicembre 2013, essa Corte d'appello, in veste di giudice dell'esecuzione, aveva disposto, inaudita altera parte, la confisca, ai sensi della norma censurata, di vari cespiti mobiliari (buoni postali, titoli e un libretto postale), intestati a una persona condannata con sentenza irrevocabile del 14 luglio 2009 per il delitto di ricettazione e a due suoi congiunti: cespiti il cui valore (pari, nel complesso, ad oltre 170.000 euro) appariva, alla luce degli accertamenti svolti dalla polizia giudiziaria, sproporzionato rispetto alla capacita' reddituale del condannato e del suo nucleo familiare (attestatasi, nel periodo compreso tra il 1990 e il 2011, attorno a una media di 12.000 euro anni lordi, ossia a livelli di mera sussistenza). Avverso il provvedimento avevano proposto opposizione, a norma degli artt. 667, comma 4, e 676 cod. proc. pen., il condannato e i terzi interessati, assumendo che i redditi del nucleo familiare - ricostruiti in modo incompleto dalla polizia giudiziaria, essendo rappresentati, per una considerevole parte, anche da poste non oggetto di dichiarazione fiscale - erano, in realta', del tutto compatibili con la disponibilita' dei beni oggetto di confisca. Cio' premesso, la Corte rimettente dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 12-sexies, comma 1, del d.l. n. 306 del 1992, nella parte in cui riconnette la speciale misura ablativa anche alla condanna (o al "patteggiamento") per il delitto di ricettazione. La questione sarebbe rilevante nel giudizio a quo, giacche', anche riconoscendo «valenza implementativa» ad alcuni degli apporti finanziari evidenziati dagli opponenti, non considerati dalla polizia giudiziaria, il provvedimento opposto dovrebbe essere confermato «pressoche' integralmente». Le deduzioni difensive risulterebbero, infatti, inidonee a sovvertire la valutazione di manifesta sproporzione tra i flussi reddituali degli interessati e il valore dei beni confiscati (sostanzialmente, denaro contante): cio', tenuto conto anche del fatto che nel medesimo torno di tempo erano stati operati dagli opponenti consistenti investimenti immobiliari (non oggetto di confisca), atti ad erodere ulteriormente la loro capacita' di risparmio. Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, la Corte calabrese osserva che, per far luogo alla misura ablativa in questione, e' necessario - ma anche sufficiente - che sussista una sproporzione tra il reddito dichiarato dal condannato o i proventi della sua attivita' economica e il valore dei beni di cui e' titolare o ha la disponibilita', anche per interposta persona, e che non venga, altresi', fornita una giustificazione credibile in ordine alla provenienza dei beni stessi. Come chiarito dalle sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza 17 dicembre 2003-19 gennaio 2004, n. 920, dirimendo un pregresso contrasto di giurisprudenza, non e' invece richiesta la dimostrazione che i beni da confiscare derivino dal singolo reato per cui la condanna e' intervenuta, o da una piu' ampia attivita' criminosa del condannato;

ne', d'altra parte, il provvedimento ablativo resta escluso dal fatto che i beni siano stati acquisiti in epoca anteriore o successiva al reato per cui si e' proceduto, o che il loro valore superi il provento di quest'ultimo. Alla stregua di tale lettura della norma, qualificabile ormai come «ius receptum», il condannato e il suo nucleo familiare dovrebbero subire, nel caso di specie, l'ablazione forzosa di un cospicuo patrimonio mobiliare - che, per una considerevole parte, potrebbe anche essere frutto dell'accaparramento di risorse finanziarie provenienti dalla liquidazione di cespiti appartenenti ad un affine premorto, in danno degli altri coeredi (punto sul quale e' mancata, peraltro, «un'autentica e piena allegazione difensiva») - in ragione di un'unica condanna definitiva per la ricettazione di un'autovettura, commessa in epoca prossima alla data del furto (8 aprile 2003) e accertata il 31 agosto 2004. Occorrerebbe considerare, tuttavia, che l'istituto si basa sulla presunzione che le risorse economiche, sproporzionate e non giustificate, rinvenute in capo al condannato derivino dall'accumulazione di illecita ricchezza che talune categorie di reati sono ordinariamente idonee a produrre: accumulazione ritenuta socialmente pericolosa, a fronte della possibile utilizzazione delle risorse per il finanziamento di ulteriori delitti o del loro reimpiego nel circuito economico-finanziario, con effetti distorsivi del sistema economico legale;

donde l'esigenza di sottrarle all'interessato. Il giudice rimettente si dichiara consapevole del fatto che la Corte costituzionale ha ritenuto non irragionevole la predetta presunzione, escludendo conseguentemente che la confisca cosiddetta "allargata" si ponga in contrasto con il principio di eguaglianza e il diritto di difesa, anche in riferimento all'art. 42 Cost. (ordinanza n. 18 del 1996). Ma, se questo vale per l'istituto «globalmente considerato», non altrettanto potrebbe dirsi - secondo il giudice a quo - con riguardo alla sua applicabilita' alle condanne per ricettazione. Come posto in evidenza anche nella richiamata sentenza delle sezioni unite, la ragionevolezza della presunzione di cui si discute rimarrebbe collegata alla circostanza che ci si trovi al cospetto di delitti usualmente perpetrati «in forma quasi professionale» e che si pongano come fonte ordinaria di un illecito accumulo di ricchezza. Simili connotati non sarebbero riscontrabili in rapporto al delitto di ricettazione. Alla luce dell'esperienza giudiziaria, infatti, tale reato risulta non solo ampiamente diffuso, ma presenta, altresi', una casistica estremamente varia, «sia sul piano della criminogenesi che sul piano del modello di agente tipo». Mentre i condannati per ognuno degli altri delitti cui la norma denunciata riconnette la presunzione - ad esempio, l'associazione di tipo mafioso, il traffico di stupefacenti, l'estorsione, il sequestro di persona a scopo di estorsione, l'usura, la corruzione o il riciclaggio - apparirebbero razionalmente omologabili tra loro ai fini considerati, altrettanto non avverrebbe riguardo ai condannati per ricettazione. Accanto al condannato corrispondente «ad un modello di agente tipico [...] abbastanza delineato», assimilabile sostanzialmente all'autore del reato di cui all'art. 648-bis del codice penale (riciclaggio), rispetto al quale la presunzione legale di accumulo di ricchezza illecita manterrebbe un «certo fondamento», si porrebbe la «stragrande maggioranza» dei condannati per il delitto in questione, costituita da soggetti in rapporto ai quali la presunzione non avrebbe ragione di operare. Si tratterebbe, infatti, di persone che hanno commesso il reato «estemporaneamente», procurandosi cose provenienti da delitto sul «mercato nero» solo per realizzare un risparmio di spesa o per acquisire beni fuori dalla loro portata economica o legale, o «per altre innumerevoli ragioni». Ne', al fine di contenere in limiti accettabili siffatta eterogeneita' di situazioni, basterebbe la circostanza che all'ambito applicativo della confisca cosiddetta "allargata" sia espressamente sottratta la fattispecie attenuata di ricettazione prevista dal secondo comma dell'art. 648 cod. pen. Per consolidata giurisprudenza, l'ipotesi del fatto «di particolare tenuita'», cui fa riferimento tale disposizione, sarebbe ravvisabile solo entro ristretti limiti, venendo al riguardo in rilievo precipuamente il valore della cosa ricettata, con esclusione di qualsiasi valutazione della personalita' del reo e della sua pericolosita' sociale. In questa prospettiva, la norma censurata violerebbe, in parte qua, l'art. 3 Cost. sotto un duplice profilo. In primo luogo, per l'irragionevole assimilazione del delitto di ricettazione agli altri gravi delitti indicati dalla norma denunciata, rispetto ai quali la presunzione di illecito accumulo di ricchezza potrebbe ritenersi legittimata dalle caratteristiche della condotta incriminata. In secondo luogo, per la ingiustificata equiparazione del trattamento dei condannati per il reato in questione. Il riferimento alla condanna per il delitto di cui all'art. 648 cod. pen. come presupposto della misura, senza ulteriori specificazioni che consentano o impongano al giudice una valutazione della effettiva riconducibilita' del fatto per cui e' intervenuta...

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