n. 210 SENTENZA 25 settembre - 22 novembre 2018 -

ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 1 della legge della Regione autonoma Trentino-Alto Adige 31 ottobre 2017, n. 8 (Istituzione del nuovo Comune di Sen Jan di Fassa - Sen Jan mediante la fusione dei comuni di Pozza di Fassa-Poza e Vigo di Fassa-Vich), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 27 dicembre 2017-3 gennaio 2018, depositato in cancelleria il 3 gennaio 2018, iscritto al n. 3 del registro ricorsi 2018 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell'anno 2018. Visto l'atto di costituzione della Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol;

udito nella udienza pubblica del 25 settembre 2018 il Giudice relatore Franco Modugno;

uditi l'avvocato dello Stato Leonello Mariani per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Barbara Randazzo per la Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol. Ritenuto in fatto 1.- Con ricorso notificato il 27 dicembre 2017-3 gennaio 2018 (reg. ric. n. 3 del 2018), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, ai sensi dell'art. 127 della Costituzione, questioni di legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 5 e 6 Cost. e all'art. 99 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), dell'art. 1 della legge della Regione autonoma Trentino-Alto Adige 31 ottobre 2017, n. 8 (Istituzione del nuovo Comune di Sen Jan di Fassa - Sen Jan mediante la fusione dei comuni di Pozza di Fassa-Poza e Vigo di Fassa-Vich). 1.1.- Deduce il ricorrente che, con la normativa impugnata, la Regione autonoma ha istituito il Comune di Sen Jan di Fassa-Sen Jan mediante la fusione dei Comuni di Pozza di Fassa-Poza e Vigo di Fassa-Vich, in virtu' della potesta' legislativa prevista dall'art. 7 dello statuto reg. Trentino-Alto Adige, omettendo, tuttavia, di rispettare il disposto dell'art. 99 dello stesso statuto, il quale impone l'uso della lingua italiana e non solo - come nella specie - della lingua ladina. Violati sarebbero pure gli artt. 5 e 6 Cost., in quanto la garanzia delle minoranze linguistiche e l'unita' e indivisibilita' della Repubblica ostano all'utilizzo di denominazioni toponomastiche espresse solo mediante l'uso dell'idioma locale. E' ben vero - soggiunge il ricorrente - che l'art. 102 dello statuto speciale tutela le popolazioni ladine della Regione autonoma, ma il rispetto della toponomastica di tali popolazioni non puo' risolversi nell'eliminazione della toponomastica italiana. La tutela si realizzerebbe, dunque, a traverso la compresenza della denominazione ladina e italiana del toponimo, e non si potrebbe risolvere in un rapporto di alternativita' linguistica, che realizzerebbe un'illegittima discriminazione a danno della «maggioranza (linguistica) italiana». Cio' sarebbe tanto vero che, per la Provincia autonoma di Bolzano, l'art. 101 del medesimo statuto prevede l'uso congiunto, nella toponomastica, della lingua italiana e tedesca. Si aggiunge, a tal proposito, che, in coerenza con le previsioni statutarie, l'art. 5 del decreto legislativo 16 dicembre 1993, n. 592 (Norme di attuazione dello statuto speciale della regione Trentino-Alto Adige concernenti disposizioni di tutela delle popolazioni ladina, mochena e cimbra della provincia di Trento), individua i vari Comuni ladini, espressi tutti nella forma bilingue. Si conclude rilevando che, se nella Provincia autonoma di Bolzano vige la regola del bilinguismo perfetto ed e' obbligatoria la toponomastica italiana, a piu' forte ragione nella Provincia autonoma di Trento - in assenza di bilinguismo perfetto - la tutela delle minoranze linguistiche non puo' avvenire facendo a meno dell'utilizzo della lingua ufficiale nazionale. 1.2.- L'analisi delle disposizioni statali emanate in attuazione dell'art. 6 Cost. confermerebbe la dedotta illegittimita' costituzionale della disciplina impugnata. Nella legge 15 dicembre 1999, n. 482 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche), applicabile, sino all'adozione di specifiche norme di attuazione, anche alle Regioni ad autonomia speciale, si afferma, infatti, che la lingua ufficiale della Repubblica e' l'italiano (art. 1) e si prevede che, in aggiunta ai toponimi ufficiali, puo' essere disposta l'adozione di toponimi conformi alle tradizioni e agli usi locali (art. 10). Dunque, il toponimo locale non potrebbe eliminare quello ufficiale. A sua volta, la legge della Provincia autonoma di Trento 27 agosto 1987, n. 16 (Disciplina della toponomastica), pur non occupandosi - perche' materia di competenza regionale, ai sensi dell'art. 7 dello statuto - della toponomastica dei Comuni, stabilisce che alle denominazioni ufficiali di frazioni, strade, piazze ed edifici pubblici possono essere affiancati i toponimi tradizionalmente usati in sede locale (art. 10). Ancor piu' di recente, l'art. 19, comma 6, della legge della Provincia autonoma di Trento 19 giugno 2008, n. 6 (Norme di tutela e promozione delle minoranze linguistiche locali), stabilisce che «[f]atte salve le denominazioni dei comuni, le indicazioni e le segnalazioni relative a localita' e toponimi di minoranza sono di regola espresse nella sola denominazione ladina, mochena o cimbra». Ne deriverebbe, dunque, che, a differenza delle denominazioni di localita' e toponimi di minoranza, quelle dei Comuni devono essere espresse anche in lingua italiana, tant'e' che la stessa legge, nell'individuare i Comuni territorialmente interessati, ne indica le denominazioni in forma bilingue. 1.3.- La circostanza che la lingua italiana non possa essere sostituita - ma solo affiancata - da altre lingue locali sarebbe desumibile, poi, pure dalla sentenza n. 42 del 2017 di questa Corte, la quale, ancorche' riferita a diversa fattispecie, ha ribadito, in relazione al principio di tutela delle minoranze linguistiche, come l'uso di altre lingue non possa essere inteso come alternativo alla lingua italiana, o tale da porre quest'ultima «in posizione marginale». 1.4.- In conclusione, il ricorrente osserva che - indicando nella sola lingua ladina la denominazione del nuovo Comune di Sen Jan di Fassa-Sen Jan, quando era peraltro storicamente presente in quei luoghi anche quella italiana di San Giovanni - la Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol avrebbe esercitato «in modo costituzionalmente non corretto la competenza legislativa alla stessa spettante in materia di denominazione dei comuni di nuova istituzione», con cio' violando i parametri costituzionali evocati. 2.- Con atto depositato l'8 febbraio 2018, la Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol si e' costituita chiedendo dichiararsi inammissibili o, comunque sia, infondate le questioni di legittimita' costituzionale proposte dal Presidente del Consiglio dei ministri. 2.1.- La Regione resistente svolge un'articolata premessa in fatto, nella quale sottolinea in particolare la circostanza che, il 12 e il 17 agosto 2016, i Comuni di Pozza di Fassa-Poza e di Vigo di Fassa-Vich avevano trasmesso alla Provincia autonoma di Trento le delibere consiliari dell'11 agosto 2016, con le quali avevano deciso di attribuire al nuovo Comune la denominazione di «Comun de Sen Jan» nella versione ladina e di «Comune di Sen Jan di Fassa» nella versione italiana, mantenendo, in entrambe le versioni, il nome "Sen Jan" «in ragione del profondo significato storico-identitario dell'intera comunita' legato alla "Pief de Sen Jan", il luogo in cui si riuniva fin dalle origini l'assemblea di tutti i vicini della Comunita' di Fassa». 2.2.- La Regione autonoma pone in evidenza, poi, che il Commissario del Governo per la Provincia autonoma di Trento, benche' fosse a conoscenza dei fatti sin dal 23 settembre 2016 - data nella quale la Giunta regionale lo aveva informato della procedura di fusione dei Comuni di Pozza di Fassa-Poza e Vigo di Fassa-Vich, della denominazione dell'istituendo Comune e dell'oggetto del relativo quesito referendario, ove tale denominazione era stata ripetuta - non abbia «manifestato tempestivamente alcun dubbio di costituzionalita' sul punto in occasione del rilascio dell'intesa [per l'individuazione della data in cui tenere la consultazione referendaria], ne' abbia impugnato la deliberazione della Giunta regionale del 10 ottobre 2016». In conseguenza di cio', la Regione resistente deduce la tardivita' del ricorso, in quanto proposto a legge approvata, malgrado il relativo procedimento contemplasse espressamente l'intervento del Commissario del Governo in vista della consultazione referendaria, la cui delibera di indizione da parte della Giunta regionale recava anche la denominazione dell'istituendo Comune. Si richiama, al riguardo, la sentenza n. 2 del 2018 della Corte costituzionale, nella quale si e' affermato che i vizi degli atti del procedimento referendario, fatti valere tempestivamente davanti al giudice amministrativo, si trasferiscono sulla legge regionale e possono essere...

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