n. 181 SENTENZA 21 giugno - 13 luglio 2017 -

ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 2-quater, comma 1, del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564 (Disposizioni urgenti in materia fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 novembre 1994, n. 656, e dell'art. 19, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Chieti nel procedimento vertente tra C. C. e l'Agenzia delle entrate, direzione provinciale di Chieti ed altra, con ordinanza del 1° luglio 2016, iscritta al n. 240 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 2016. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 21 giugno 2017 il Giudice relatore Daria de Pretis. Ritenuto in fatto 1.- Con ordinanza del 1° luglio 2016, la Commissione tributaria provinciale di Chieti ha sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2-quater, comma 1, del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564 (Disposizioni urgenti in materia fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 novembre 1994, n. 656, e dell'art. 19, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413). La prima disposizione stabilisce che «[c]on decreti del Ministro delle finanze sono indicati gli organi dell'Amministrazione finanziaria competenti per l'esercizio del potere di annullamento d'ufficio o di revoca, anche in pendenza di giudizio o in caso di non impugnabilita', degli atti illegittimi o infondati [...]». La seconda elenca gli atti impugnabili davanti alle commissioni tributarie. Il giudice a quo riferisce che le questioni sono state sollevate nell'ambito di un processo instaurato da un contribuente contro il «silenzio-rifiuto formatosi sull'istanza di autotutela» (presentata il 14 febbraio 2013) avente ad oggetto il riesame degli avvisi di accertamento - non impugnati in sede giudiziaria - con cui, in relazione agli anni 2008 e 2009, erano stati rettificati in aumento i redditi professionali da lui dichiarati. Il rimettente afferma innanzitutto la propria giurisdizione sulla controversia in questione, richiamando un orientamento della Corte di cassazione secondo il quale apparterrebbero alla giurisdizione tributaria le controversie «nelle quali si impugni il rifiuto espresso o tacito dell'amministrazione a procedere ad autotutela», alla luce dell'art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2002)», che avrebbe attribuito carattere generale alla giurisdizione tributaria. Il giudice a quo riferisce anche che la Cassazione ha precisato che «questione altra o diversa da quella di giurisdizione, e di competenza, appunto del giudice tributario, e' stabilire se il rifiuto di autotutela sia o meno impugnabile». Su quest'ultimo punto la Cassazione avrebbe statuito, riferisce il giudice a quo, che non esiste un obbligo di pronuncia esplicita dell'Amministrazione finanziaria sull'istanza di autotutela e che l'omissione di pronuncia sarebbe inoppugnabile, «non potendosi configurare un silenzio-rifiuto tacito o implicito ricorribile in sede giurisdizionale». Secondo il rimettente, tale lacuna di tutela giurisdizionale si porrebbe in contrasto con gli articoli 3, 23, 24, 53, 97 e 113 della Costituzione. Sulla rilevanza della questione, il giudice a quo osserva che, nel caso di specie, gli avvisi di accertamento «sono scaturiti da presunzioni legali relative ex art. 32 del D.P.R. 600/1973 concernenti l'esito delle indagini finanziarie che hanno avuto ad oggetto esclusivamente i prelevamenti ed i versamenti dai conti bancari», e che «il quantum presuntivamente accertato sulla scorta dei prelevamenti e' palesemente illegittimo e contra ius, per effetto della sentenza n. 228/2014 della Corte costituzionale» con cui e' stata dichiarata «l'illegittimita' costituzionale [parziale] dell'art. 32, comma 1, numero 2), secondo periodo, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602». Il rimettente precisa poi che, «peraltro, nella fattispecie in esame l'oggetto del sospetto di costituzionalita' e' limitato all'ammissibilita' del silenzio rifiuto tacito o implicito - ovvero alla doverosa, da parte della p.a., adozione di un atto espresso - ed alla sua impugnabilita' in sede giurisdizionale». Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo denuncia, in primo luogo, «[i]l contrasto con gli articoli 53 e 23 della Costituzione, anche in relazione all'art. 3 della Costituzione», ossia la «[l]esione del principio della capacita' contributiva e del principio di ragionevolezza». La capacita' contributiva rappresenterebbe un «principio fondamentale dell'ordinamento costituzionale», da bilanciare con l'interesse fiscale dello Stato in base al criterio di ragionevolezza. Non sarebbe «concepibile un interesse egoistico del Fisco a conservare atti impositivi, ancorche' divenuti definitivi, palesemente illegittimi al fine di trarne un profitto sostanzialmente ingiustificato e del tutto svincolato dalla capacita' contributiva del contribuente». L'«assoggettamento del contribuente, privo di mezzi di tutela, ad una ingiusta ed illegittima imposizione» si tradurrebbe dunque nella violazione degli articoli 53, 23 e 3 Cost. Il giudice a quo lamenta poi la violazione «del diritto di azione in giudizio e del principio della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi». Ribadisce che la Cassazione «ha ritenuto insussistente l'obbligo di pronuncia esplicita...

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