Osservazioni sulla relazione della commissione ministeriale per la riforma del codice penale istituita con D.M. 1 Ottobre 1998 e presieduta dal prof. C. F. Grosso

AutoreG. F. Ciani/G. F. Iadecola/G. Izzo, A. Mura/G. F. Viglietta
Pagine113-120

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@1. Il principio di offensività.

@@1.1. Considerazioni generali.

L'esigenza, considerata insopprimibile, «di ancorare, anche visivamente, la responsabilità penale all'offesa reale dell'interesse protetto» è stata dalla Commissione unanimemente rappresentata, pur nel contrasto sulle modalità di inserimento nel codice penale del principio di necessaria offensività del fatto.

Questa adesione alla concezione c.d. realistica dell'illecito penale segue una scelta della Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali, attestatasi sulla non punibilità dei fatti formalmente tipici che nel concreto siano carenti di offensività reale.

Il giudizio di apparente tipicità dell'illecito e di sua concreta inoffensività verrebbe affidato al magistrato, sprovvisto di inequivoche regole legali su cui parametrare le proprie valutazioni e conseguentemente indotto a far interagire considerazioni etiche, sociali, politico-criminali, economiche o di altro genere.

L'esercizio di siffatta discrezionalità non vincolata contrasta o quanto meno mette in crisi principi fondati del nostro sistema penale quali quello della riserva di legge e di legalità.

Tale prospettiva di crisi, non richiamata nel testo finale varato dalla Commissione Grosso, era stata invece illustrata dalla sottocommissione, per la quale l'istituto appariva «in potenziale contrasto con il principio di legalità sostanziale e processuale»; opinione, quest'ultima, condivisa da chi (DONINI, L'art. 129 del progetto di revisione costituzionale approvato il 4 novembre 1997, in Critica del diritto, 1998) ha avvertito che solo un ancoraggio della concezione realistica ad una norma di rango costituzionale consentirebbe, grazie ad un raccordo diretto con la disposizione del comma primo dell'art. 129 del progetto («le norme penali tutelano beni di rilevanza costituzionale»), di definire «un modello di riduzione dell'area penale impegnativa per lo stesso Parlamento».

Certo è che detta situazione di tensione con il principio di legalità è effetto comune ad entrambe le modalità di inserimento nel codice del principio di offensività quali ipotizzate dalla Commissione (causa di non punibilità - criterio ermeneutico) e, quindi, destinata comunque ad alimentare quel processo di sovraesposione della magistratura che emerge preoccupantemente ogni volta che, fatto più duro l'attacco alla sicurezza pubblica da parte della micro e macro-criminalità, si pone in discussione l'esercizio di margini di discrezionalità da parte della magistratura penale.

Queste considerazioni giustificano ampiamente il prudente approccio della giurisprudenza di legittimità al tema dell'offensività, tradottosi da ultimo nella decisione delle Sezioni unite penali (sent. 8 aprile 1998, n. 13, Pres. La Torre, Rel. Gemelli) per la quale «corollario del principio di offensività è che, nell'ipotesi di pericolo astratto, il fatto punibile ha in sè in via presuntiva le caratteristiche dell'interesse tipico protetto», con ciò sollevandosi l'interprete dal difficilissimo compito di verificare la concreta offensività del fatto.

@@1.2. Il principio di offensività delle condotte e le finalità deflattive della riforma.

Fin dal primo paragrafo della relazione la Commissione avverte l'esigenza di una forte deflazione del carico penale. La richiamata necessità di ancorare la responsabilità penale alla reale offesa dell'interesse protetto, «nel quadro di un diritto penale specificamente finalizzato a proteggere i più rilevanti beni giuridici, e centrato sulla tassativa descrizione di fatti costituenti reato già di per sè costruiti in modo da assicurare, nei limiti del possibile, la punibilità di condotte offensive dell'interesse protetto» (§ I.1, pag. 4), pur essendo dettata da ragioni di indole costituzionale, comporta implicitamente anche un'opzione verso quel diritto penale minimo di cui molti studiosi (v. FERRAIOLI, PALIERO) discutono da tempo. In altra parte la Commissione affronta il problema della legislazione penale speciale, definita, per la sua anomala e caotica sovrabbondanza, causa di «decodificazione» (per effetto della tendenziale creazione di sottosistemi che progressivamente si divaricano dai principi generali del codice) e momento di forte crisi della conoscibilità della legge penale. E tuttavia, quando dalle affermazioni di principio la Commissione passa all'esame degli strumenti che potrebbero assicurare il raggiungimento degli obiettivi, non riesce a fornire indicazioni coerenti. Il suo parere è sostanzialmente negativo sul principio della «riserva di codice e di legge organica» da inserire nella Costituzione secondo il progetto della Bicamerale del 4 novembre 1997; egualmente impraticabile le appare lo schema di legge delega della Commissione Pagliaro, che prevedeva l'espressa conferma della validità delle leggi penali speciali derogatrici di norme del codice, mediante leggi delegate, e la caducazione di tutte quelle non confermate. La scelta si orienta, invece, verso l'enucleazione di direttive al legislatore nelle disposizioni transitorie del codice.

In realtà la Commissione mostra di nutrire dubbi già sull'opportunità dell'obiettivo di una prevalenza del codice, o quanto meno di una forte riduzione dell'area dei reati disciplinati dalla legislazione speciale, perché la nega per le materie in cui le fattispecie penali sono collegate «all'inosservanza di precetti extrapenali» e per determinate attivitàPage 114 professionali e produttive (costruttori edili, produttori di sostanze pericolose). Resta, quindi, assai dubbia l'efficacia dello strumento proposto: la riformulazione dell'attuale art. 16 c.p. nel senso della necessità di abrogazione espressa delle norme del codice, con l'aggiunta dell'ammissibilità di norme speciali solo se modificano il codice o sono leggi organiche che disciplinano un'intera materia, nonché della possibilità di introdurre nuove fattispecie di reato soltanto per fatti dannosi o pericolosi.

Quanto al problema della validità della dicotomia tra delitti e contravvenzioni, dibattuto da decenni, la Commissione individua tutte le irrazionalità della disciplina vigente, ma non riesce ad indicare neppure una preferenza tra le possibili opzioni, limitandosi ad esporre gli opposti orientamenti emersi nel suo seno. Gli argomenti a favore della conservazione delle contravvenzioni non sembrano, in realtà, avere alcuno spessore dogmatico, manifestando piuttosto un rilevante scetticismo verso la prospettiva di una drastica riduzione del carico penale ed anzi affermando la necessità di non rinunziare a strumenti di facile accertamento, quali le fattispecie di mera condotta e di pericolo astratto, e l'utilità delle contravvezioni per categorie di fatti quali quelli «integranti un irregolare esercizio di attività sottoposte a poteri amministrativi di concessione, autorizzazione, controllo e vigilanza» (e cioè tutto quel settore definito da FIANDACA di «amministrativizzazione» del diritto penale) e per i «fatti di ridotta offensività». La proclamazione iniziale testualmente trascritta risulta così pressoché totalmente svuotata di significato. L'esigenza di deflazione resta affidata alle depenalizzazioni che il legislatore riterrà di adottare e allo strumento marginale dell'irrilevanza penale del fatto, mentre quella di evitare il fenomeno c.d. di decodificazione è rimessa a direttive generali per il legislatore.

Probabilmente i limiti e le incertezze rilevati non sono addebitabili alla Commissione. Una codificazione che si propone di individuare i più rilevanti interessi da tutelare con la sanzione penale non è certo un'operazione esclusivamente tecnica: esige opzioni fondamentali e, quindi, l'individuazione di un sistema condiviso di valori espresso da maggioranze stabili e assai ampie. Inoltre richiede un articolato sistema di tutele extrapenali ed efficienza e trasparenza della pubblica amministrazione.

@2. L'irrilevanza penale del fatto.

Non unanime è l'avviso della Commissione in punto di introduzione dell'irrilevanza penale di un fatto pur tipico, antigiuridico e colpevole, ma tale da non attingere ad un sufficiente livello di gravità che ne giustifichi la sanzione penale.

Secondo la concezione c.d. gradualistica dell'illecito penale dovrebbe essere sottratto a sanzione il fatto che, pure in astratto non bagatellare, così da non esserne consentita la depenalizzazione, si riveli nella sua manifestazione concreta tale da non giustificare la sanzione: sia per il minimo disvalore dell'azione o dell'evento; sia per la ridotta riprovevolezza del comportamento antidoveroso colpevolmente tenuto dal reo; sia per la marginalità delle esigenze di prevenzione speciale evidenziate dall'occasionalità del fatto e dall'assenza di potenzialità criminose dell'autore.

Anche il giudizio di irrilevanza, quale che sia la struttura dell'istituto - si ricorra cioè o ad un meccanismo di «deprocessualizzazione» sulla falsariga dell'art. 27 c.p.p. minorile o ad un'ulteriore causa di non punibilità - attiva margini di discrezionalità valutativa di rilevante spessore.

Certo la Commissione ha esplicitato i parametri cui vincolare detta discrezionalità, assegnando una considerazione primaria all'esiguità del danno o del pericolo ed al grado di colpevolezza, nonché una funzione di limite negativo alla dichiarazione di irrilevanza dei requisiti esterni al fatto che profilino il c.d. «autore bagatellare», ma questo non elimina i rischi di valutazioni disomogenee della giurisprudenza su parametri necessariamente ampi, né la difficoltà di accertare l'esiguità dell'offesa quando siano attentati beni giuridici superindividuali (si pensi ai reati contro la P.A. od a quelli ambientali).

Di qui l'esigenza di articolazioni di dettaglio che guidino con maggior certezza la discrezionalità del giudice: un'esigenza che resta immanente quand'anche si provveda, come auspica la Commissione, ad «una rigorosa delimitazione dell'area applicativa dell'istituto attraverso limiti quantitativi di pena edittale».

L'auspicio...

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