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CORTE DI APPELLO PENALE DI ANCONA 10 MAGGIO 2011, N. 739 (UD. 3 MAGGIO 2011)

PRES. FANULLI – EST. FANULLI – IMP. S.S.

Giudizio penale di primo grado y Dibattimento y Esame dei testimoni y Testimone sottrattosi al contraddittorio dibattimentale y Acquisizione delle precedenti dichiarazioni su accordo delle parti y Divieto di provare la colpevolezza dell’imputato y Inoperatività.

Il divieto di provare la colpevolezza sulla base delle dichiarazioni di chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’esame dell’imputato o del suo difensore non opera in riferimento alle prove dichiarative i cui verbali siano stati acquisiti al fascicolo per il dibattimento con il consenso delle parti. (c.p.p., art. 493; c.p.p., art. 526) (1)

(1) Si veda Cass. pen., sez. III, 24 settembre 2007, Panozzo, in questa Rivista 2008, 472, secondo cui gli atti contenuti nel fascicolo del Pubblico Ministero ed acquisiti, sull’accordo delle parti, al fascicolo per il dibattimento, possono essere legittimamente utilizzati ai fini della decisione, non ostandovi neppure i divieti di lettura di cui all’art. 514 c.p.p., salvo che detti atti siano affetti da inutilizzabilità cosiddetta «patologica» qual è quella derivante da una loro assunzione contra legem.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE

S.S. insorge contro la sentenza n. 41/2010 del 22 gennaio 2010 del Tribunale di Macerata - Sezione distaccata di Civitanova Marche che lo ha dichiarato colpevole del reato di maltrattamenti ai danni del coniuge S.S. condannandolo, in concorso di attenuanti generiche, alla pena di mesi otto di reclusione e al pagamento delle spese processuali.

Pena sospesa.

L’appellante censura la pronunzia appellata addebitando al primo giudice la violazione dell’art. 526 comma 1 bis c.p.p., per avere posto a fondamento della sentenza le dichiarazioni, acquisite con il consenso delle parti, della denunziante, che si era sempre sottratta all’esame dibattimentale.

Lamenta, inoltre, una errata valutazione delle risultanze probatorie e ingiustificato credito attribuito alla persona offesa.

Deduce, infine, che anche a voler ritenere attendibile il quadro probatorio dell’accusa, non risulterebbe dimostrata l’integrazione del delitto a condotta plurima (c.d. abituale) di cui all’art. 572 c.p., ma, in ipotesi, singole e contingenti condotte offensive.

L’anzidetta eccezione di carattere processuale è palesemente infondata.

Non ignora questo Collegio, la sentenza richiamata dall’appellante, secondo cui “il divieto di provare la colpevolezza sulla base delle dichiarazioni di cui, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto al-l’esame dell’imputato o del suo difensore opera anche in riferimento alle prove dichiarative i cui verbali siano stati acquisiti al fascicolo per il dibattimento con il consenso delle parti” (Cassazione penale, sez. II, 10 aprile 2008, n. 26819, Dell’Utri ed altro) ma, da un lato, ritiene di non condividere l’esegesi normativa che ne è a fondamento e, dall’altro, rileva che i principi in essa affermati non si applicherebbero, comunque, al caso in esame.

Procedendo con ordine, l’ordito logico della pronunzia della Suprema Corte si articola, essenzialmente, attraverso i seguenti passaggi:

-la disposizione del secondo inciso del comma 4 del-l’art. 111 Cost. opera su un piano del tutto diverso rispetto al precedente inciso e al successivo comma 5: non concerne la formazione della prova, bensì introduce una regola di giudizio ponendo al giudicante il divieto di considerare provato l’accertamento della colpevolezza dell’imputato sulla base delle dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore. Il divieto si colloca, infatti, sul piano del tutto diverso delle regole del giudizio e si pone cronologicamente e logicamente nella sequenza procedimentale come un posterius rispetto all’attuazione del principio del contraddittorio nella formazione della prova (con la correlata previsione di deroga), regolando la norma l’attività del giudicare inerendo, cioè essa, alla disciplina non di cosa, bensì di come il Giudice deve valutare e pone, con il divieto, un particolare e specifico limite al principio, (implicitamente presupposto), del libero convincimento del giudice;

-la L. n. 63 del 2001, art. 19 - inserendo all’art. 526 c.p.p., un comma 1 bis -riproduce fedelmente, letteralmente l’art. 111 Cost., comma 4, ultima parte con la sola sostituzione del termine “esame” con quella di “interrogatorio” stante la collocazione dibattimentale della previsione. Trattasi, invero, non di una regola di esclusione probatoria, bensì di una regola operante in sede di deliberazione in ordine alla quale la norma non prevede alcuna eccezione.

Dall’analisi testuale delle norme prima richiamate, (art. 111 Cost. commi 4-5, art. 526 bis c.p.p., comma 1), risulta, in maniera evidente, che il legislatore costituzionale ha ritenuto suscettibile di eccezioni il solo principio del contraddittorio nella formazione della prova - consenten-

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do deroghe che attengono al momento acquisito della stessa - ma non il divieto di provare la colpevolezza sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volutamente sottratto all’esame, non ammettendo, cioè, la possibilità di deroghe che attengano al momento successivo della regola valutativa, del criterio di giudizio che circoscrive gli effetti della acquisizione: il giudice valuta le dichiarazioni ma, mentre gli è concesso argomentare in senso favorevole, non può, sulla base delle stesse, ritenere “provare la colpevolezza”: il dato probatorio entra, cioè attraverso il consenso, nel patrimonio conoscitivo valutabile dal Giudice che risulta, però, vincolato nell’operazione decisione da un criterio il quale, nella fattispecie, gli impedisce di affermare la colpevolezza sulla base delle dichiarazioni suddette;

-ciò significa che l’acquisizione concordata dei verbali delle dichiarazioni potrà effettivamente preludere alla valutazione del suo contenuto soltanto qualora risulti favorevole all’imputato. La clausola contenuta nell’art. 526 c.p.p., comma 1 bis assume la natura di criterio legale di valutazione che vieta al giudice di concludere in damnosis sulla base di quelle dichiarazioni - peraltro legittimamente entrate nel fascicolo del dibattimento, (perché diversamente non potrebbe neppure ipotizzarsene una rilevanza ai fini decisori) - salvo restando l’impiego in utilibus; -deve, cioè, in definitiva, pervenirsi alla soluzione che qualora le dichiarazioni in questione, legittimamente confluite nel fascicolo del dibattimento, abbiano valore a carico, la loro valutazione, ai fini della pronunzia di condanna, rimane comunque preclusa dalla regola di esclusone costituzionale, recepita dal codice all’interno dell’art. 526 c.p.p. ed ivi trasformata in regola di valutazione.

Tale ricostruzione, intrinsecamente coerente, non persuade per almeno due ordini di ragioni.

Il primo attiene alla interpretazione della disposizione di cui all’art. 111 Cost., comma 4 secondo inciso, che - ad avviso della Suprema Corte -contrariamente a quella di cui al medesimo comma 4 e del comma 5 non sarebbe derogabile per effetto del consenso dell’imputato, trattandosi di criterio legale di valutazione, vincolante per il giudice a prescindere da qualsivoglia consenso.

Se effettivamente si trattasse di regola legale di giudizio, come quelle, ad esempio, di cui all’art. 192 comma 2 c.p.p. (in tema di valutazione degli indizi) o di cui ai successivi commi dell’anzidetta disposizione (in tema di riscontri alla chiamata in correità) la stessa dovrebbe evidentemente valere anche in sede di giudizio abbreviato.

L’approfondimento della questione passa attraverso l’analisi di cuna serie di importanti pronunzie della Corte costituzionale della Suprema Corte, che hanno consentito il consolidarsi della tesi secondo cui in sede di giudizio abbreviato la disposizione in esame non trova applicazione: il che, evidente,ente, contrasta con la pretesa natura di regola vincolante di giudizio.

Procedendo con ordine, va anzitutto ricordata l’importante sentenza 9 maggio 2001, n. 115 della Consulta che, nel respingere numerose censure di incostituzionalità delle norme che disciplinano il giudizio abbreviato ha rimarcato che il fondamento del giudizio abbreviato sta proprio nella utilizzazione probatoria -previo consenso dell’imputato, implicito nella richiesta del rito speciale - degli atti legittimamente assunti nel corso delle indagini preliminari. Ciò in sintonia con l’art. 111 comma 4 della Costituzione che ha enunciato il principio del contraddittorio nella formazione della prova nel processo penale, ma ha poi espressamente previsto il consenso dell’imputato tra i casi di deroga al principio stesso (quinto comma).

Sulla scorta di tale pronuncia la stessa Corte costituzionale, con ordinanza 27 luglio 2001, n. 326, ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 438 comma 5 e 442 comma 1 bis c.p.p., sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 comma 4 Cost., nella parte in cui consento che la colpevolezza del-l’imputato possa essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi si è volontariamente sottratto all’interrogatorio dell’imputato o del suo difensore, in ipotesi di richiesta di giudizio abbreviato subordinata all’esame di persona che aveva reso dichiarazioni accusatorie nel corso delle indagini preliminari e che si sia poi avvalsa della facoltà di non rispondere.

La Cassazione si è allineata al principio dettato dalla Consulta affermando che la domanda di definizione del processo con il rito abbreviato, subordinata alla audizione di un chiamante in correità, non fa venir meno, qualora costui si sia avvalso della facoltà di non rispondere, l’utilizzabilità delle dichiarazioni precedentemente da lui rese nel corso delle indagini preliminari (Cass. pen., sez. I, 6 dicembre 2002...

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