Merito

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CORTE DI APPELLO PENALE DI NAPOLI SEZ. II, 4 APRILE 2011, N. 1812

PRES. MADDALENA – EST. GIANNELLI – IMP. PANACCIO

Misure di prevenzione y Singole misure y Sorveglianza speciale y Divieto di associarsi abitualmente a pregiudicati y Violazione y Natura di “reato abituale proprio” y Estremi di configurabilità y Ripetitività e serialità della condotta y Necessità.

Misure di prevenzione y Singole misure y Sorveglianza speciale y Divieto di associarsi abitualmente a persone che hanno subito condanna y Delimitazione delle “condanne” rilevanti y Interpretazione restrittiva y Fondamento.

Il delitto di cui agli articoli 5, terzo comma, e 9, secondo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, con riguardo al divieto di associarsi abitualmente alle persone che hanno subìto condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza “rientra nel novero dei reati abituali propri”; si esige, pertanto, non solo la reiterazione degli atti concorrenti a dar vita alla sustanziazione plurima della condotta de qua, ma, anche, che gli intervalli tra gli atti in esame siano alquanto brevi. (l. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 5; l. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 9) (1)

Il termine “condanna” di cui al combinato disposto di cui agli articoli 5, terzo comma, e 9, secondo comma, della legge n. 1423/56, in conformità della ratio ispiratrice della legge medesima, deve essere interpretato restrittivamente, con limitazione, cioè, alle condanne capaci di destare apprezzabile allarme sociale; un’unica condanna per titolo di reato contravvenzionale non può intendersi richiamato dalla normativa de qua. (l. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 5; l. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 9) (2)

(1) Si vedano Cass. pen., sez. I, 8 giugno 2007, S., in Guida al diritto 2007, 30, 69 e Cass. pen., sez. I, 3 dicembre 1999, Russo, in questa Rivista 2000, 948, secondo le quali la configurabilità del reato previsto dall’art. 9 l. 27 dicembre 1956 n. 1423 - seppure non richieda l’instaurazione di un regime “di comunanza di vita e di interessi” con persone che abbiano subito condanne e che siano sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza - deve fondarsi necessariamente su una condotta di “frequentazione reiterata” idonea ad integrare l’«abitualità» del comportamento. La norma incriminatrice, infatti, postula la “ripetitività” e la “serialità” della condotta, sì da concretizzare “una stabilizzata relazione interpersonale” tale da cagionare allarme nell’autorità di P.S.. Di interesse anche Trib. pen. Monza, 9 febbraio 2009, C. P., in questa Rivista 2009, 1429.

(2) Nulla in termini. Cfr. Corte app. pen. Catania, 9 gennaio 1986, Gallo, in Giust. pen. 1987, II,424, secondo cui l’obbligo imposto al sorvegliato speciale dall’art. 5 l. 27 dicembre 1956 n. 1423, sanzionato dall’art. 9, di non associarsi abitualmente a persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza importa la sussistenza di tre requisiti: a) l’”associarsi”, che è diverso dall’”incontrarsi”; b) l’essere state, le altre persone, già condannate; c) l’essere le stesse sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza, cioè essere pericolose.

Svolgimento del processo e motivi della decisione

La sentenza del primo giudice va riformata. Deve premettersi, quanto all’eccezione di inutilizzabilità succitata, che, ad avviso di questa Corte, la doglianza è infondata.

Invero non risulta in atti che la Difesa si sia in alcun modo opposta, in primo grado, alla dichiarazione di utilizzabilità degli atti, dopo che il primo giudice aveva ritenuto - a ‘sensi del quarto comma dell’articolo 495 c. p. p. - la causa matura per la decisione di merito, pur dopo la mancata comparizione dei testi d’Accusa, assistenti della Polizia di Stato Trillò e Rizzo. Si versa, pertanto, in un’ipotesi di acquiescenza della Difesa all’evoluzione del procedimento.

Nel merito, l’imputato va assolto dall’imputazione di cui al capo d’accusa perché il fatto non sussiste.

Il combinato disposto degli articoli 5 e 9, comma 2, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, prescrive alla persona sottoposta alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno di non allontanarsi dalla fissata dimora senza preventivo avviso all’Autorità medesima e di non associarsi abitualmente alle persone che hanno subìto condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza.

Orbene, pur essendo contestato al Panaccio di essersi allontanato dalla dimora senza preventivo avviso all’Autorità di P.G. territorialmente competente, non è emerso in dibattimento alcun indizio in ordine a tale, specifica, violazione, non potendo dirsi sufficienti - in quanto estremamente generiche - le dichiarazioni accusatorie dell’agente di P.S. Alfredo Stara, con riguardo al controllo effettuato in data 18 marzo 2010, alla stregua delle quali il Panaccio si era reso responsabile di pregresse violazioni agli obblighi e divieti connessi all’applicazione della misura di prevenzione su di lui gravante.

Quanto al divieto di associarsi abitualmente alle persone che hanno subìto condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza, si condivide l’orientamento della Suprema Corte alla stregua del quale “ai fini della configurabilità della contravvenzione al divieto, imposto

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al sorvegliato speciale, di associarsi abitualmente con persone che abbiano riportato condanne e siano sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza - di cui al terzo comma dell’art. 5 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 -l’uso della congiunzione “e” non può intendersi nel senso che per la violazione della prescrizione ivi contemplata debbano coesistere, nel soggetto considerato, le qualità di “condannato” e di “sottoposto a misura di prevenzione (o di sicurezza)”, avendo chiaramente, il legislatore, inteso tipizzare le categorie di persone la cui frequentazione deve essere comunque interdetta al prevenuto, essendo indifferente la ricorrenza, in concreto, di una soltanto o di entrambe le condizioni soggettive specificate” (Cass., sez. I, 12 marzo 1998, n. 3158, Sorrenti, RV 210192).

Pure si condivide l’asserzione della Suprema Corte secondo la quale “in tema di misure di prevenzione, la locuzione ‘associarsi abitualmente’, di cui all’articolo 5, terzo comma, della legge n. 1423 del 1956, ha una valenza semantica ed una portata del tutto diverse dal concetto di associazione per delinquere di cui agli artt. 416 e 416 bis c.p., essendo riferibile ad una frequentazione reiterata e conforme a schemi abitudinari di comportamento, da cui esula totalmente la necessità di un vincolo stabile cementato da un comune fine criminoso” (Cass., sez. I, 23 dicembre 1999, n. 14606, Doronzo, RV 216106).

L’indirizzo della giurisprudenza di legittimità dal quale questa Corte territoriale ritiene doversi discostare è quello, segnato dalla Corte di Cassazione, alla stregua del quale la reiterazione che può dar vita al delitto di cui agli articoli 5 e 9, comma 2, della legge 1423/1956 potrebbe anche prescindere dal carattere - testualmente postulato dal disposto dell’articolo 5, comma 3 l. cit. - dell’abitualità.

Invero, nelle decisioni della Corte Suprema (Cass., sez. I, 23 dicembre 1999, cit.; Cass., sez. I. 21 novembre 2005, n. 41712), nelle quali si poggia l’accento sulla reiterazione, e si ritiene la sufficienza di incontri “ripetuti e plurimi, ancorché discontinui”, appare tradito il concetto di abitualità, il quale non può prescindere dal carattere di un lasso temporale apprezzabilmente breve che imprima alla reiterazione di cui trattasi il crisma necessario di un reato abituale proprio - si ponga mente, ex parallelo, al delitto di cui all’articolo 572 c.p., tipico reato abituale proprio, ma anche al delitto abituale improprio di cui al secondo comma dell’articolo 564 c.p. - esigenza di collegamento cronologico che, solo, può dar vita alla sustanziazione plurima della condotta di ogni reato siffatto.

Nel caso sottoposto all’esame di questa Corte, sotto un primo profilo, appare difettare l’apprezzabile brevità del lasso temporale che deve intercorrere tra le pretese trasgressioni degli articoli 5, comma 3, e 9, comma 2, della legge più volte citata, come si desume dallo stesso capo d’accusa; sotto un concorrente, ma non meno rilevante profilo, si deve notare che, quanto al fatto accertato in data 3 novembre 2009, non pochi dubbi emergono quanto al carattere di offensività - nell’ottica preventiva che interessa - dell’incontro con i coniugi Nicola Todisco e Maria Lequille, abitanti nello stesso stabile del Panaccio e la cui “conversazione”, in ordine al cui contenuto il teste d’Accusa, Assistente capo Lamberti Rosario, nulla è in grado di riferire, non è meglio caratterizzata, di tal che, atteso il rapporto di cui sopra, ben si potrebbe affermare che si trattasse di normalissimi discorsi, ricollegabili alla descritta situazione; quanto al fatto accertato in data 15 gennaio 2010, va immediatamente notato che, secondo questo Collegio, essendosi, in quell’occasione, il Panaccio, “associato” con tre persone, delle quali due erano incensurate, ed il solo Mastracchio gravato da una condanna per contravvenzione, il termine “condanna” deve essere oggetto di una sana interpretazione restrittiva, nel senso di una limitazione alle condanne che comportino un apprezzabile allarme sociale, fra le quali non rientra una unica condanna per titolo contravvenzionale di reato.

Dovendo, pertanto, ai fini che interessano, “computare” i soli episodi accertati in data 18 dicembre 2009 e 10 marzo 2010, vengono meno i caratteri di abitualità, e la stessa, apprezzabile, reiterazione, necessari perché si possa configurare il delitto per il quale si procede.

L’imputato deve essere, pertanto, assolto dall’accusa contestatagli perché il fatto non sussiste; a’ sensi dell’articolo 300, comma 1, c.p.p., va disposta l’immediata rimessione in libertà dell’odierno appellante, ove non risulti detenuto per altro titolo. (Omissis)

TRIBUNALE...

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