Merito

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TRIBUNALE PENALE DI PISA UFF. G.E., ORD. 18 MAGGIO 2011

EST. DEGL’INNOCENTI – RIC. EDDBIRI

Esecuzione in materia penale y Procedimento di esecuzione y Poteri del giudice y Revoca della sentenza per incompatibilità della normativa nazionale con quella comunitaria y Interpretazione analogica dell’art. 673 c.p.p. y Ammissibilità y Fattispecie.

In tema di esecuzione, la revoca della sentenza di condanna opera anche, in virtù di interpretazione estensiva o analogica, nel caso d’inapplicabilità sopravvenuta della norma nazionale per effetto di pronuncia della Corte di Giustizia CE che ne affermi l’incompatibilità con quella comunitaria. (Nel caso di specie la pronuncia della Corte di Giustizia Ce del 28 aprile 2011 nella causa C-61/11 aveva interpretato la direttiva Rimpatri del 16 dicembre 2008, n. 115/CE, nel senso che essa osta a quanto statuito, in particolare, dall’art. 14 comma 5 ter del D.L.vo 286/1998). (c.p.p., art. 673; d.l.vo 25 luglio 1998, n. 286, art. 14; dir. CE 16 dicembre 2008, n. 115) (1)

(1) Pronuncia adesiva, in punto di diritto, a quanto affermato da Cass. pen., sez. I, 27 aprile 2011, T.L.N., inedita. La sentenza della Corte di Giustizia CE, sez. I, 28 aprile 2011, C. 61/11, è pubblicata in questa Rivista 2011, 678.

In diritto

Visti gli atti del fascicolo di esecuzione a carico di Eddbiri Abdelhak, nato in Marocco il 11 dicembre 1983; vista la richiesta, presentata nell’interesse dello Eddbiri, di revoca, ai sensi dell’art. 673 c.p.p., della sentenza di applicazione pena n. 1092/06 R. Sent. (mesi 5 e gg. 10 di reclusione, con concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena), emessa nei suoi riguardi dal Tribunale di Pisa, in composizione monocratica, in data 28 novembre 2006, divenuta irrevocabile il successivo 20 dicembre 2006, in relazione al reato di cui all’art. 14 comma 5-ter D.L.vo 286/1998, accertato in San Giuliano Terme, (PI), frazione Madonna dell’Acqua, il 25 novembre /2006; rilevato che, con sentenza emessa in data 28 aprile 2011 nella causa C-61/11 PPU, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha dichiarato che “La direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 dicembre 2008, 2008/115/CE, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, in particolare i suoi artt. 15 e 16, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una norma- tiva di uno Stato membro, come quella in discussione nel procedimento principale, che preveda l’irrogazione della pena della reclusione al cittadino di un paese terzo il cui soggiorno sia irregolare per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio di tale Stato, permane in detto territorio senza giustificato motivo”; ritenuto, pertanto, che il Giudice nazionale, “incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni del diritto dell’Unione e di assicurarne piena efficacia” (cfr. sentenza CtGUE 28 aprile 2011), deve disapplicare ogni disposizione del D.L.vo 286/1998 contraria a quelle della Direttiva 2008/115 e, segnatamente, l’art. 14 comma 5 ter (cfr., in termini, Cass., I, sentenze 28 aprile 2011 nn. 1606, 1594 e 1590); rilevato come la stessa Corte di Giustizia abbia, con la più volte citata sentenza, ritenuto che “il giudice del rinvio dovrà tenere debito conto del principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite, il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri”; rilevato, inoltre, come, secondo la costante giurisprudenza della S.C. di Cassazione, sebbene nel caso di specie non ricorra un’ipotesi di abrogazione o dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, un’interpretazione costituzionalmente corretta del disposto dell’art. 673 c.p.p. consenta di applicare lo stesso in via analogica nel caso di sopravvenuta inapplicabilità di una norma nazionale per effetto di una pronuncia della Corte di Giustizia CE che ne affermi l’incompatibilità con quella comunitaria, trattandosi, appunto, di una “ipotesi certamente assimilabile dal punto di vista logico a quelle espressamente stabilite nel citato art. 673 c.p.p., in siffatto caso sostanzialmente verificandosi una sorta di abolitio criminis e non già un mero mutamento giurisprudenziale” (così, in termini e da ultimo, Cass., I, 27 aprile 2011, n. 16521; nello stesso senso cfr. anche Cass. sentenze nn. 34376/2010, 30595/2010 e 21579/2008; sul punto cfr., infine, Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale - adunanza plenaria -10 maggio 2011, ove si afferma che “Deve concludersi che l’entrata in vigore della normativa comunitaria ha prodotto l’abolizione del reato previsto dalla disposizione sopra citata, e ciò, a norma dell’art. 2 del codice penale, ha effetto retroattivo, facendo cessare l’esecuzione della condanna e i relativi effetti penali”); rilevato, ancora, che, come chiarito dalla Corte di legittimità con la ricordata sentenza n. 16521/2001, “il ruolo di qualificato interprete del diritto comunitario svolto dalla Corte di Giustizia connota autoritariamente la pronuncia emessa da tale Corte, sicchè la sentenza interpretativa di

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una norma, dalla Corte emanata, si incorpora nella norma stessa e ne integra il precetto con efficacia immediata (cfr. anche sentenze Corte Cost. nn. 13/85, 389/89 e 168/91)”; ritenuto, pertanto, di dovere revocare la sentenza di applicazione pena sopra indicata (sul fatto che l’abrogazione intervenuta in fase esecutiva della norma incriminatrice comporta la revoca della sentenza di patteggiamento, al pari della sentenza di condanna, cfr. Cass., I, 19 ottobre 2007, n. 42407). (Omissis).

TRIBUNALE PENALE DI PALERMO SEZ. I, ORD. 28 MARZO 2011 (UD. 28 MARZO 2011)

EST. VASCELLARO – IMP. X.

Responsabile civile nel giudizio penale y Citazione a giudizio y Termine y Citazione per il dibattimento y Interpretazione del disposto ex art. 83 c.p.p.

La locuzione contenuta nell’art. 83, secondo cui “la richiesta di citazione deve essere proposta al più tardi per il dibattimento”, deve essere interpretata nel senso che la citazione può avvenire anche per una udienza successiva alla prima, quando le udienze iniziali siano prodromiche al dibattimento. La citazione del responsabile civile per un un’udienza successiva consente allo stesso di chiedere la concessione di un termine a difesa per predisporre la propria difesa. (c.p.p., art. 518)

In diritto

L’art. 519 c.p.p., così come esplicitato dalla stessa rubrica, individua i diritti che l’ordinamento riconosce alle parti a seguito della formulazione delle nuove contestazioni effettuate nel medesimo procedimento da parte del magistrato inquirente.

Si tratta di una disposizione di indubbia rilevanza in quanto protesa a salvaguardare la possibilità, per ciascuno dei soggetti coinvolti nella vicenda processuale, di ricevere la strategia originariamente adottata a sostegno delle rispettive posizioni, a fronte dell’intervenuto mutamento del thema decidendum e, correlativa,ente del thema probandum.

Sul punto occorre, tuttavia, premettere come l’originario tenore della disposizione di fatto prendesse in considerazione esclusivamente la posizione dell’imputato e della persona offesa, omettendo del tutto l’attribuzione di analoghi poteri in capo agli altri protagonisti della vicenda processuale. Tale disciplina è stata pertanto dichiarata costituzionalmente illegittima dal Giudice delle Leggi il quale, peraltro, ha contestualmente ampliato il novero degli elementi istruttori che possono essere fatti valere nel contesto del mutato scenario processuale.

Ne discende che, essendo il responsabile civile una parte privata diversa dall’imputato, anche a tale figura processuale spetta il diritto a chiedere l’ammissione di prove nuove.

Scendendo nel dettaglio dei singoli precetti, l’art. 519 c.p.p. prevede che, in caso di nuove contestazioni, il presidente informi l’imputato della possibilità di chiedere un termine a difesa.

A prescindere dalle opzioni adottate dall’imputato in punto di richiesta del termine a difesa o di acquisizione di nuovi mezzi di prova, il giudice deve comunque disporre la citazione della persona offesa entro un termine non inferiore a cinque giorni.

Una analoga disposizione invece non è contenuta nella citata norma, né in quella successiva del medesimo codice, né sul punto ha statuito alcunché la Corte costituzionale.

Appare allora evidente che in tale situazione di vuoto legislativo occorre procedere ad una interpretazione - non formalistica ad avviso di questo Decidente - dell’impianto normativo esistente.

Viene allora in considerazione l’art. 83 c.p.p.: esso prevede che il “responsabile civile . . . può essere citato nel processo penale a richiesta della parte civile”, come avvenuto nel caso di specie innanzi al Giudice della Udienza preliminare. La medesima norma processuale prevede ancora che il decreto contenga: “. . . l’indicazione delle domande che si fanno valere contro il responsabile civile”. Orbene, in materia di citazione a giudizio, l’imputazione non deve contenere una indicazione assolutamente dettagliata dei fatti attribuiti (come invece è previsto nel caso di emissione di decreto che dispone il giudizio), ma è sufficiente che faccia riferimento ai tratti essenziali del fatto di reato, dotati di adeguata specificità, in modo da consentire al responsabile civile di difendersi.

Ciò posto, deve quindi anzitutto ritenersi che sia la parte civile, nel caso di contestazione suppletiva, a dover chiedere nuovamente la citazione a giudizio del responsa- bile civile, dovendo la locuzione normativa secondo cui “la richiesta di citazione deve essere proposta al più tardi per il dibattimento”, essere interpretata (per giurisprudenza di legittimità costante), nel senso che “la citazione può avvenire anche per una udienza successiva alla prima, quando le udienze iniziali - come avvenuto fino a questo momento - sono prodromiche al...

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