Mediazione e processo nel sistema penale

AutoreGianluca Tramontano
Pagine255-269

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1. Premessa

Negli ultimi decenni è emerso con grande intensità un dibattito sulla crisi del sistema penale e del suo ruolo di regolatore dei rapporti sociali conflittuali all’interno della società (Faget, 2008; Pisapia, 1997; Vianello, 2004; Gulotta, 1995; Ceretti, 1999).

Secondo una lettura ormai risalente (Christie, 1977), il diritto penale e i suoi “discorsi” (Pavarini, 1998; Foucault, 1977), avrebbero derubato gli individui dei loro propri conflitti e della possibilità di risolverli in maniera soddisfacente. Secondo tale impostazione, lo Stato, si è sostituito ai diretti protagonisti del conflitto, soprattutto alla vittima, barattando i loro interessi con quelli definiti dalla Legge.

Una tale sostituzione, sebbene definita unilateralmente, sarebbe stata accettata di buon grado e tollerata, se almeno avesse portato ad una ricostruzione delle relazioni interrotte a seguito del conflitto-reato; ma tale condizione non si è realizzata. Non solo: non si registra soddisfazione da parte di nessuno dei diretti interessati al conflitto: il reo, la vittima, la comunità e la società in generale.

Come reazione a tale crisi di sistema (Sarzotti, 2008), sono state prospettate diverse soluzioni, ma quella che sembra, a nostro avviso, meglio strutturata e che fornisce anche dati promettenti in ordine alla ricostruzione dei legami sociali interrotti dal reato e alla soddisfazione dei suoi protagonisti, almeno in ambito internazionale (Umbreit, Coates e Vos, 2001), è quella della giustizia riparativa.

Tale modello di giustizia, che si contrappone secondo alcuni (Zehr, 1990), o si affianca secondo altri (Daly, 2002) ai modelli retributivo e rieducativo (o riabilitativo o trattamentale), rappresenta la sfida cruciale lanciata al diritto penale contemporaneo e allo stesso tempo la possibilità per quest’ultimo, di essere salvato, conservando il suo spessore e occupando più chiaramente il suo ruolo (Garapon, 1992, p.47).

È questo il contesto del discorso nel quale si sviluppa la proposta di una flessibilizzazione del diritto, cui ormai comunemente si fa riferimento con l’espressione “diritto mite” (Zagrebelsky, 1992). La constatazione che siamo in una realtà sempre più complessa che non può venire governata e ridotta dallo strumento giuridico ma richiede piuttosto una estrema flessibilità dello strumento giuridico alla complessità sociale, guida l’avvento dell’idea diffusa della necessità, appunto, di un diritto debole, mite, flessibile (Pitch, 1998; Resta, 1992).

Sembra opportuno accogliere questa idea della “mitezza del diritto”, in quanto pare avvicinarci ai presupposti fondanti della mediazione. Sembra presupporre, infatti, la presa d’atto dell’inattualità di una concezione statuale del diritto, ma anche una convergenza su alcuni aspetti della convivenza sociale. Solo un diritto di questo tipo può offrire un più ampio spazio di sperimentazione di nuove forme di regolazione sociale. E una di queste nuove forme di regolazione, forse emblematica, è la giustizia riparativa.

Si cercherà, nei paragrafi che seguono, di tracciare una linea che, a partire dalla dimensione teorica nel contesto internazionale della giustizia riparativa, arrivi ad incrociare la dimensione applicativa nel sistema penale italiano.

2. Percorsi di giustizia

L’amministrazione della giustizia ha cambiato spesso volto nel corso degli anni, ispirandosi nella sua applicazione concreta a modelli di intervento divergenti per oggetto, mezzi, obiettivi, e riconducibili a scelte politiche e ad orientamenti filosofici che hanno contribuito, di volta in volta, al loro affermarsi o al loro declino. L’azione giudiziaria è stata condotta sostanzialmente sulla base di tre forme di composizione dei conflitti: il modello retributivo, quello riabilitativo e, recentemente, quello riparativo (Gatti e Marugo, 1994, Scardaccione, Baldry e Scali, 1998, Ceretti, 1999, Ponti, 1995; De Leo e Patrizi, 2008).

Nel primo modello l’attenzione è focalizzata sul reato e, una volta accertata la colpevolezza del soggetto, lo si persegue tramite l’applicazione della giusta punizione, spesso consistente nella privazione della libertà personale.

La retribuzione è espressione di una giustizia rigida e repressiva, riconducibile a forme di vendetta privata proprie delle società arcaiche e delle civiltà culturalmente poco sviluppate. Nelle società moderne permane questa

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volontà di “far pagare il male con il male”, ma tale compito viene assunto dallo Stato, attraverso la previsione di riti di risarcimento consistenti in forme di sofferenza da infliggere al reo come retribuzione sociale (Garena, 1999, p. 51).

Il modello riabilitativo invece, si prefigge lo scopo di modificare il comportamento deviante, e dunque oggetto centrale dell’intervento è l’autore del reato sul quale si cerca di agire con l’utilizzo di strumenti e tecniche conseguite dopo l’ingresso delle scienze psicologiche e sociologiche nell’area del trattamento della delinquenza (Scardaccione, Baldry e Scali, 1998, p.2).

La riparazione rappresenta l’ultimo in ordine temporale dei modelli di giustizia a cui si è fatto appello per tentare di superare la situazione di disagio creatasi nel settore penale a seguito dell’acquisita consapevolezza dell’inefficacia delle politiche precedentemente adottate.

La giustizia riparativa è portatrice di una visione nuova del reato, non più considerato come offesa nei confronti dello Stato, quanto piuttosto come lesione dei diritti della persona; grazie a questa costruzione vengono considerati nella giusta prospettiva i danni provocati dal delitto, prevedendo azioni del reo dirette a reintegrare l’offesa patrimoniale e morale inferta con il proprio atto.1

Prima di proseguire con la trattazione, proviamo, servendoci di uno schema elaborato da Gianluigi Ponti (1995), a sintetizzare le principali caratteristiche dei tre modelli di giustizia fin qui analizzati, anche per valutare gli elementi di novità presenti nel modello riparativo 2:

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Non è semplice, né probabilmente possibile, rintracciare gli specifici presupposti teorici di questo nuovo paradigma giuridico, tanto che qualcuno (Reggio, 2010, p. 53) parla giustamente di “origini frastagliate di un’idea”.

Ciò che è possibile fare, seguendo del resto le indicazioni di una letteratura molto vasta (Mannozzi, 2003; Reggio, 2010; Van Ness, Strong, 2006; Scardaccione, 1997; Bandini, Gatti, 1987; Zehr, 2002; Bazemore, Walgrave, 1999; Lugnano, 2000) è, molto più concretamente, considerare alcune istanze, molto spesso anche difficili da conciliare tra loro, che hanno contribuito alla nascita e allo sviluppo del paradigma riparativo, tralasciando alcune considerazioni che hanno avuto maggiore impatto in ambito internazionale, visto che, comunque, il nostro riferimento è l’Italia e, secondariamente, la sola Europa.

3. Il paradigma riparativo

Glissando in questa sede sulle considerazioni di ordine filosofico o politico, è possibile rintracciare, trasversalmente alle diverse teorizzazioni sulla nascita del paradigma riparativo, alcuni aspetti ricorrenti: a) l’insoddisfazione nei confronti del sistema penale attuale; b) la rivalutazione del ruolo della vittima e c) la critica abolizionista.3

  1. La convinzione dell’inefficacia dei sistemi di giustizia penale tradizionali, è sicuramente il motivo fondamentale che ha portato alla nascita del modello riparativo.

    La Vianello (1999, p. 81) afferma che “Primo motivo ispiratore [del nuovo modello di giustizia] sembra essere la consapevolezza dell’inefficacia dei sistemi di giustizia penale fondati su politiche di deterrenza o su programmi di riabilitazione: il paradigma compensatorio intende opporsi da subito all’idea della sanzione come unica risposta possibile al fenomeno criminale e alla confusione operata dal modello riabilitativo tra prevenzione, rieducazione e repressione, proponendo quale obiettivo irrinunciabile dell’intervento penale la restaurazione del legame sociale attraverso la riparazione del danno subito dalla vittima”. La ricerca intorno alla legittimazione della giustizia penale, secondo Williams (2005), è una delle possibili spiegazioni per l’enorme crescita di interesse per la giustizia riparativa a partire dagli anni ottanta e questa crescita ha seguito molto da vicino i contorni di quella crisi. Sempre secondo Williams, la crisi di legittimità si sviluppa quando i protagonisti della giustizia penale, vittima, reo e comunità, cominciano ad interrogarsi sulla opportunità che lo Stato si sostituisca a loro. Se il sistema non viene riconosciuto

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    da quelli che sono coinvolti nei procedimenti come giusto, imparziale ed efficiente, questo tende a generare un senso di sfiducia e la necessità di ricercare alternative migliori (come la giustizia riparativa o quella di comunità, ad esempio) che prendono in considerazione differenti metodi per risolvere i conflitti e che vanno verso modelli locali e rimoralizzanti e approcci giuridici meno Stato-dipendenti.

  2. Altra istanza alla base della nascita del modello riparativo di giustizia è la riconsiderazione del ruolo delle vittime. Come ha osservato Gianluigi Ponti (1994, p.7): “Si sono accumulati [nel corso degli anni] grossi debiti nei confronti delle vittime: debiti che la società non ha ancora onorato, e ciò è tanto più increscioso in quanto il debito era da pagarsi nei confronti di chi, essendo vittima di un reato, ha già subito un grave torto”. Quest’osservazione nasce dalla constatazione del ruolo marginale della vittima, rimasta per molto tempo estranea agli interessi della dottrina penalistica, la quale ha sempre concentrato la sua ricerca sulla figura del delinquente. Infatti, sia la Scuola Classica che quella Positiva hanno trascurato la figura del soggetto passivo del reato. Nelle teorizzazioni della Scuola Classica non c’è posto per la vittima del reato, poiché essa parte dal presupposto che il reato è un’offesa nei confronti dello Stato, mentre in quelle della Scuola...

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