Il licenziamento individuale nel lavoro pubblico

AutoreUmberto Carabelli - Maria Teresa Carinci
Pagine225-237

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@15.1. Il licenziamento individuale

Nel rapporto di lavoro pubblico trova applicazione, salvo specifiche difformità che saranno evidenziate nel corso di queste pagine, la disciplina generale sul licenziamento individuale valida nel settore privato. Questa si articola essenzialmente nelle disposizioni contenute nel codice civile (artt. 2118-2119), nella legge n. 604 del 1966 e nell’art. 18 dello statuto dei lavoratori (L. n. 300/1970)1. A differenza che nel settore privato, la legge 604/1966 non viene in rilievo per la determinazione delle conseguenze del licenziamento illegittimo (v. § 15.5), bensì solo per le disposizioni che riguardano la forma del licenziamento, la sua giustificazione e l’onere della prova circa la sussistenza della giustificazione medesima, nonché l’impugnativa del licenziamento.

A queste norme si affiancano poi una serie di disposizioni speciali per il pubblico impiego, la maggior parte delle quali contenute nel D.Lgs. n. 165/2001 (in particolare artt. da 55quater a 55octies), i cui tratti di maggiore originalità stanno nel delineare ipotesi specifiche di licenziamento, distinguendo per legge anche la causale giustificativa cui ciascuna va ricondotta, e, soprattutto, nella previsione, in alcuni casi, di un vero e proprio obbligo di licenziare.

Nei paragrafi che seguono verranno in estrema sintesi illustrati i vari profili della disciplina del licenziamento, partendo dalla giustificazione del licenziamento per proseguire con la forma, l’impugnazione e le tutele previste in caso di licenziamento illegittimo. In ultimo sarà trattato in breve l’istituto della riammissione in servizio del dipendente pubblico.

@15.2. Le ragioni giustificative del licenziamento

La legge 604/1966 introduce (art. 1) il principio generale di necessaria giustificatezza del licenziamento, vale a dire il principio in base al quale il datore di lavoro deve indicare i motivi per i quali ritiene di non volere o potere più impiegare il lavoratore. Le motivazioni possono essere di carattere soggettivo od oggettivo, intendendosi per Page 226 le prime quelle nelle quali assume peso centrale la colpevolezza del lavoratore e per le seconde (v. § 15.3) quelle in cui rileva solo l’oggettivo impedimento all’utile impiego del lavoratore stesso. Il licenziamento intimato in difetto di giustificazione è illegittimo e, nel settore pubblico, sempre inefficace.

L’impianto normativo codicistico, che, in ossequio al principio di temporaneità dei vincoli obbligatori, riconosceva come regola il libero recesso con preavviso (art. 2118)2, è dunque sostanzialmente sostituito dalla regola in base alla quale il recesso del datore deve essere giustificato, salvo in una serie di ipotesi residuali specificamente individuate dalla legge3. secondo un orientamento, peraltro, anche in queste ipotesi resta salva la nullità del licenziamento che il lavoratore provi determinato da motivo illecito (ad es. di ritorsione per una rivendicazione giudiziale avanzata dal lavoratore)4.

@@15.2.1. Le ragioni soggettive: la giusta causa ed il giustificato motivo soggettivo

Due sono le norme di riferimento per la individuazione delle ragioni soggettive di giustificazione del licenziamento: 1) l’art. 2119 cod. civ., secondo il quale «qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro» ciascuna delle parti può recedere senza preavviso o prima della scadenza del termine (ove il contratto sia a tempo determinato); e 2) l’art. 3, prima parte, L. n. 604/1966, secondo il quale il giustificato motivo (soggettivo), che legittima il licenziamento con preavviso, è costituito dal «notevole inadempimento degli obblighi contrattuali». Queste norme sono di solito ricalcate dai contratti collettivi di comparto5.

La differenza tra le due causali soggettive sta essenzialmente nella maggior gravità dei fatti costituenti la giusta causa, che devono ledere il rapporto con il dipendente al punto tale da non consentire al datore di mantenerlo in servizio neanche per il solo periodo del preavviso, e nella circostanza per cui la giusta causa può derivare anche da fatti estranei al rapporto di lavoro, che siano in grado di ledere irrimediabilmente l’aspettativa del datore all’esattezza dei successivi adempimenti (fatti relativi alla vita privata del lavoratore con indiretto rilievo sul piano contrattuale: ad es. furto ai danni di terzi commesso da un addetto a mansioni di cassa)6.

Come chiarito dalla giurisprudenza, le due norme citate disegnano due concetti giuridici ‘elastici’: sono cioè prive di una fattispecie di riferimento rigidamente costruita dal legislatore. sarà quindi il giudice nel caso concreto a stabilire se il fatto sottoposto alla sua valutazione debba essere ricondotto alla giusta causa o al giustificato motivo soggettivo di licenziamento. Ciò spiega perché, di fronte ai tentativi della con- Page 227 trattazione collettiva di predeterminare le ipotesi di giusta causa, la giurisprudenza abbia costantemente ribadito la priorità dell’assetto definito per legge e, conseguentemente, del ruolo del giudice nella valutazione della fattispecie concreta.

Fino ad oggi, in relazione al lavoro pubblico, il legislatore si era spinto a configu- rare fattispecie di licenziamento solo in rare ipotesi, tra le quali vanno annoverate quelle di licenziamento per violazione della normativa sulle incompatibilità. L’art. 1, co. 60, L. n. 662/1996 prevede infatti che «al personale è fatto divieto di svolgere qualsiasi altra attività di lavoro subordinato o autonomo»7 e stabilisce (co. 61) che la violazione del divieto costituisce giusta causa di recesso o di decadenza dall’impiego.

La riforma del 2009 ha apportato in materia significative novità, predeterminando in via legislativa alcune fattispecie di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo di licenziamento, nel tentativo di rendere più efficiente la p.a. e di sanzionare adeguatamente i dipendenti che non cooperino al perseguimento di questo obiettivo.

Tale obiettivo è stato perseguito mediante l’inserimento all’interno del D.Lgs. n. 165/2001 di una serie di nuovi articoli, le cui previsioni – vale la pena di segnalarlo – finiscono per occupare spazi fino ad oggi riservati alla contrattazione collettiva, con l’obiettivo di rendere più rigorosi i controlli sui dipendenti e più severe le sanzioni8.

L’intervento del legislatore della riforma, peraltro, ha interessato in particolare un rilevante profilo in materia disciplinare, che incide direttamente anche sulla materia dei licenziamenti: la previsione di un vero e proprio obbligo a carico del soggetto preposto all’esercizio del potere disciplinare, di esercitarlo effettivamente (v. § 14.3), e dunque anche di licenziare il dipendente nel caso sussistano gli estremi di legge9. La fissazione di un siffatto obbligo ha l’evidente obiettivo di provocare un mutamento del costume, generalmente piuttosto lassista, nella gestione del personale pubblico e comporta, per quanto qui più interessa rilevare, una quasi rivoluzione nella disciplina del licenziamento, che passa da semplice facoltà della parte datoriale a vero e proprio obbligo legislativamente sancito in nome della tutela dell’interesse della p.a. quale datore di lavoro e creditore e, attraverso questo, dell’interesse pubblico al buon andamento ed all’efficienza della p.a. A tal fine, inoltre, il legislatore ha limitato ai casi di dolo e colpa grave la responsabilità del dirigente pubblico per eventuali profili di illiceità delle determinazioni relative al procedimento disciplinare10, mirando, in tal modo a superare uno dei maggiori freni all’adozione delle sanzioni disciplinari (e maxime di quella espulsiva) nel lavoro pubblico, consistente appunto nell’interesse del dirigente a non esporsi personalmente al rischio che il contenzioso con il lavoratore interessato dal provvedimento sanzionatorio abbia esito negativo.

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L’art. 55quater, pur tenendo ferma la disciplina generale in materia di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, e facendo salve eventuali ulteriori previsioni dei contratti collettivi, prevede l’adozione della sanzione espulsiva in una serie di ipotesi, con l’obiettivo evidente di rendere effettivo il ricorso al licenziamento.

In base al dettato normativo11, si avrà licenziamento senza preavviso (giusta causa) in caso di falsa attestazione della presenza in servizio o della malattia che giustifica l’assenza (in questo caso si prevede anche il licenziamento del medico certificante la malattia inesistente: v. infra), di falsità in atti o dichiarazioni commesse ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto o della progressione in carriera, di reiterazione di condotte gravemente indisciplinate nell’ambiente di lavoro nonché di condanna penale definitiva in conseguenza della quale sia prevista l’interdizione dai pubblici uffici o l’estinzione, comunque denominata, del rapporto di lavoro.

Si avrà invece giustificato motivo soggettivo in caso di assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell’arco di un biennio o comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni, ovvero per la mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall’amministrazione12. La stessa sanzione vale in caso di ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall’amministrazione per motivate esigenze di servizio13, nonché qualora l’amministrazione di appartenenza valuti insufficiente il rendimento del dipendente nel biennio e l’insufficienza sia imputabile a violazione degli obblighi concernenti la prestazione14. Una previsione, quest’ultima, che canonizza anche il licenziamento per scarso rendimento come soluzione imposta (nel senso sopra precisato), sia pure sulla base di una valutazione discrezionale (si tratta comunque di una discrezionalità limitata alla valutazione del rendimento come insufficiente: perché essa rilevi ai...

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