L'Art. 255 c.p.: Riscoperta di una norma desueta

AutoreAntonio Forza
Pagine641-646

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@1. Premesse

Si è ultimamente riscoperta da parte di qualche procura una norma che sembrava, per desuetudine, definitivamente archiviata in un passato ormai lontano.

La norma è quella dell'art. 255 c.p. che sanziona con una pena gravissima, da otto a ventiquattro anni, la soppressione, la falsificazione o la sottrazione di atti e documenti concernenti la sicurezza od altro interesse politico interno o internazionale dello Stato.

Si arriva addirittura all'ergastolo ove si verifichi la condizione della compromissione dell'efficienza bellica.

Ad un primo esame la norma potrebbe sembrare sufficientemente delineata nella sua struttura materiale e la condotta sanzionata facilmente individuabile. Ma ad un'analisi più approfondita, invece, gli elementi che la informano appaiono in parte incerti, in altra parte sicuramente indeterminati, comunque, tali da non consentire di individuare il tipo di fatto disciplinato.

La norma penale si pone così in contrasto con il principio costituzionale sotto il duplice profilo della determinatezza sia della fattispecie che della sanzione.

L'incertezza, come si vedrà, investe la natura ed il contenuto degli «atti» e «documenti». L'indeterminatezza pervade sia il concetto di «sicurezza» correlato agli atti/documenti, ma ancor più quello di «interesse politico» dello Stato.

Di fatto, tale norma non ha trovato una sua pratica attuazione, al punto che qualche Autore ha parlato di abrogazione di fatto suggerita dal buon senso 1.

La dottrina in diverse occasioni (ma esiste anche qualche pronuncia giurisprudenziale di merito) per alcune norme ricomprese nel Titolo I del Libro II del codice penale, ha ritenuto che, con l'instaurazione dell'ordinamento della Repubblica democratica, certi reati debbano considerarsi abrogati 2.

La Corte costituzionale, invece, nel dichiarare l'incostituzionalità degli artt. 273 e 274 c.p., nonché dell'art. 211 T.U. Leggi di pubblica sicurezza, ha espressamente chiarito che, pur trattandosi di fattispecie «ispirate allo spirito di ben altra stagione politico-istituzionale», non può essere messo in dubbio che: «una volta entrata in vigore la legge fondamentale dello Stato repubblicano, ogni questione concernente la compatibilità rispetto ad essa delle leggi ordinarie, siano esse preesistenti o successive, debba essere decisa secondo le indicazioni di cui all'art. 134 Cost. (sent. n. 1/1956)» 3.

La norma, peraltro, non era mai stata applicata, neppure dal tribunale speciale costituito dal Fascismo e competente per materia 4.

@2. Profili storici

Il delitto di soppressione, falsificazione o sottrazione di atti o documenti previsto dall'art. 255 trova la sua attuale, per certi versi anomala, collocazione nel Libro II del codice penale tra i «Delitti contro la personalità internazionale dello Stato» di cui al Capo I del Titolo I.

È questa la parte del Codice che più appare provata dal corso del tempo, dal mutamento del regime politico e dall'obiettiva obsolescenza delle categorie utilizzate, quand'anche del linguaggio.

Oggi, ancor più che in un passato recente, in una società pluralista e complessa di uno Stato democratico, appare ingiustificato il mantenimento di norme che hanno come postulato ideologico un modello dualistico e manicheo secondo il quale il mondo si divide in amici e nemici dello Stato. E ciò al di là «delle complesse operazioni ortopediche che dottrina e giurisprudenza hanno effettuato per rendere compatibili molte fattispecie» ai valori ed ai principi costituzionali 5.

Si è così finito per mantenere in vita molte fattispecie, ontologicamente incompatibili con ragioni di tutela dell'Ordinamento democratico, accomunate da un «terrorismo sanzionatorio» che non poteva non tradursi in una sorta di abrogazione di fatto delle stesse.

Acutamente, è stato osservato che queste fattispecie, nel loro complesso, sono caratterizzate da un'anticipazione della soglia di punibilità attraverso l'indebolimento dei connotati materiali delle condotte punibili e, quindi, rendendo «inafferrabile la tipicità» 6.

E così tali disposizioni, destinate a rimanere quiescenti nello svolgersi fisiologico della vita civile, sono capaci di divenire strumento repressivo feroce e incontrollato, laddove al diritto penale si assegni il compito «bellico» non di reprimere fatti e corrispondere pene a specifiche responsabilità, ma di sradicare (o ridurre) fenomeni particolari per gli equilibri politico-sociali 7.

@@2.1. Formazione storica della norma

La norma trae origine dall'art. 107 del Codice Zanardelli, che disponeva la pena della reclusione da uno a tre anni per «chiunque rivelasse segreti, politici o militari, concernenti la sicurezza dello Stato» 8.

Nella Relazione Ministeriale del 1887 che accompagnava il codice, si chiariva come la ragione di una tale disposizione andava ricercata nelle necessità di predisporre una tutela adeguata per i «segreti politici o militari» anche in tempo di pace, così da eliminare una lacuna del precedente codice penale del 1859. Analoghe ipotesi erano, infatti, considerate dal Codice dell'Esercito e dal Codice della Marina, che ne limitavano l'applicazione al solo tempo di guerra.

Nella formulazione che fu data alla norma del 1889, il bene giuridico tutelato continuava ad essere la sicurezza dello Stato, a prescindere però dallo stato di guerra. Infatti, non si parlava di rivelazioni di segreti a favore di uno StatoPage 642 straniero, magari nemico (ipotesi considerate come aggravanti), essendo sufficiente la divulgazione a favore di chiunque non fosse autorizzato a conoscerne. La fattispecie, dunque, applicabile anche in tempo di pace, manteneva, quanto al suo contenuto, una connotazione di natura strettamente militare.

La condotta colpita, ossia il «rivelare» segreti concernenti la sicurezza dello Stato, era sufficientemente tipizzata: doveva, infatti, avere ad oggetto «documenti o fatti, ovvero disegni, piani o altre informazioni che riguardassero il materiale, le fortificazioni o le operazioni militari».

I «segreti politici o militari» trovavano una loro precisa specificazione laddove per «segreti politici» si intendeva, in via residuale, tutto ciò che concerneva le relazioni dello Stato con gli altri Stati, diverse, comunque, da quelle meramente militari. Ma già in allora, e proprio sui confini del «segreto politico», nella Relazione al Codice, esposta al Senato nel 1888, si era sollevata la questione sulla eccessiva vaghezza della fattispecie. A tal proposito il relatore Carrara finiva per ammettere: «Io convengo che i reati politici benché siano definibili nelle loro linee essenziali, sono però reati, i quali, per la loro natura, non si possono disegnare legislativamente in tutti i loro particolari, perché molto più mutevoli che in ogni altra classe di reati sono le circostanze che ne costituiscono in concreto gli estremi di fatto; ed è perciò appunto che in questi reati deve essere lasciata attitudine maggiore all'apprezzamento del giudice», così come «determinare a priori i confini precisi del segreto politico, determinare cioè quali fatti palesarsi, quali debbano rimanere ignorati dal pubblico, è cosa impossibile, trattandosi di una questione di fatto, la quale si modifica all'infinito secondo la varietà dei casi, e deve quindi di necessità lasciarsi alla saviezza dei giudici» 9.

Al di là della vaghezza del concetto di segreto politico, la fattispecie era chiara nel suo complesso perché si prefiggeva di perseguire la rivelazione di segreti aventi ad oggetto la difesa militare dello Stato.

Con il profilarsi del conflitto mondiale, nel 1915 il Legislatore dilatava e completava la fattispecie, introducendo una pena anche per chi «sopprime, sottrae o distrae, anche temporaneamente, talune delle cose indicate nell'art. 107 c.p. (documenti, disegni, piani, ecc. concernenti il materiale, le fortificazioni o le operazioni militari) e nella prima parte e primo capoverso dell'art. 3 della prescritta legge (disegni, modelli, schizzi, fotografie o altro materiale rappresentativo di interesse militare)» 10.

La norma è quella di cui all'art. 6 della legge n. 273 del 21 marzo 1915 recante «Provvedimenti per la difesa economica e militare dello Stato».

Il nuovo precetto venne collocato nel Titolo II di detta legge, riguardante i «provvedimenti relativi alla difesa militare dello Stato». Inequivocabile appariva la sua finalità maturata in un momento storico altrettanto significativo in cui l'Italia stava per entrare in guerra di lì a qualche mese. Nonostante il rilievo del bene oggetto di tutela, la pena era destinata ad attestarsi entro il limite dei tre anni.

Il Legislatore del 1930, nel realizzare quel disegno di rafforzamento dell'autorità dello Stato, attraverso l'ampliamento della tutela penale, riprese dunque quella norma, nata in un momento di emergenza bellica, per estenderla ai tempi di pace. Venne così alla luce il delitto di cui all'attuale art. 255, fattispecie sconosciuta al codice del 1889, con sanzioni che andavano da un minimo di otto anni ad un massimo della pena di morte. Dalla protezione dei documenti, e del loro contenuto, specificamente elencati e di interesse esclusivamente militare, si doveva passare alla tutela di tutti gli «atti» o «documenti» concernenti «la sicurezza dello Stato o altro interesse politico interno o internazionale, dello Stato».

Tale dilatazione della portata della norma finiva per risultare direttamente proporzionale alla vaghezza delle condotte. Gli «atti» ed i «documenti» non trovavano più una loro specifica elencazione, gli stessi non erano nemmeno più individuabili attraverso il criterio della riservatezza o della segretezza, o quello della loro particolare natura, ma venivano collegati ai concetti indeterminati ed evanescenti di «sicurezza» e di «interesse politico».

@@2.2. La collocazione sistematica della norma

La collocazione del nuovo delitto veniva pensata all'interno dell'ampliata categoria dei «Delitti contro la personalità dello Stato» nel suo aspetto internazionale...

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