L'Affidamento In Prova Al Servizio Sociale 'Allargato' E La Sospensione Dell'Esecuzione Della Pena Detentiva: Incostituzionale Il Quinto Comma Dell'Art. 656 C.P.P.
Autore | Davide Cangemi |
Pagine | 418-426 |
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Arch. nuova proc. pen. 5/2018
CORTE COSTITUZIONALE
5/2018 Arch. nuova proc. pen.
CORTE COSTITUZIONALE
stabilita e voluta. Infatti l’esecuzione dell’ordine di carce-
razione, avvenuta senza aver dato al condannato il tempo
di chiedere l’affidamento in prova allargato e comunque
senza attendere una decisione al riguardo, renderebbe
impossibile la concessione della misura alternativa prima
dell’ingresso in carcere.
Tale è appunto la situazione normativa che si è rea-
lizzata a causa del mancato adeguamento dell’art. 656,
comma 5, c.p.p. Omettendo di intervenire sulla normativa
ancillare, il legislatore smentisce sé stesso, insinuando
nell’ordinamento una incongruità sistematica capace di
ridurre gran parte dello spazio applicativo riservato alla
normativa principale.
7.– Mancando di elevare il termine previsto per sospen-
dere l’ordine di esecuzione della pena detentiva, così da
renderlo corrispondente al termine di concessione dell’af-
fidamento in prova allargato, il legislatore non è incorso in
un mero difetto di coordinamento, ma ha leso l’art. 3 Cost.
Si è infatti derogato al principio del parallelismo senza
adeguata ragione giustificatrice, dando luogo a un tratta-
mento normativo differenziato di situazioni da reputarsi
uguali, quanto alla finalità intrinseca alla sospensione
dell’ordine di esecuzione della pena detentiva e alle ga-
ranzie apprestate in ordine alle modalità di incisione della
libertà personale del condannato.
L’art. 656, comma 5, c.p.p. va perciò dichiarato costitu-
zionalmente illegittimo, nella parte in cui si prevede che
il pubblico ministero sospende l’esecuzione della pena
detentiva, anche se costituente residuo di maggiore pena,
non superiore a tre anni, anziché a quattro anni.
8.– La questione di legittimità costituzionale basata
sull’art. 27, terzo comma, Cost. resta assorbita. (Omissis)
L’AFFIDAMENTO IN
PROVA AL SERVIZIO
SOCIALE “ALLARGATO”
E LA SOSPENSIONE
DELL’ESECUZIONE
DELLA PENA DETENTIVA:
INCOSTITUZIONALE IL QUINTO
COMMA DELL’ART. 656 C.P.P.
di Davide Cangemi
SOMMARIO
1. La questione in esame. 2. L’affidamento in prova e la sua
evoluzione storica. 3. Mancato coordinamento: una scelta
voluta o una mera dimenticanza del legislatore? Il quadro
normativo e giurisprudenziale. 4. La decisione della Corte
costituzionale. 5. Le conseguenze in materia cautelare. 6.
Conclusioni.
1. La questione in esame
La Corte costituzionale, con la sentenza 6 febbraio
2018, n. 41, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale
dell’art. 656, comma 5, c.p.p., nella parte in cui si preve-
de che il pubblico ministero sospende l’esecuzione della
pena detentiva, anche se costituente residuo di maggiore
pena, non superiore a tre anni, anziché a quattro anni. Il
giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma
5, c.p.p. era stato promosso dal giudice per le indagini
preliminari del Tribunale di Lecce, il quale sollevava, con
ordinanza del 13 marzo 2017, la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 656 comma 5 c.p.p., in riferimento
agli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., «nella parte in cui non
prevede che l’ordine di sospensione della pena debba esse-
re emesso anche nei casi di pena non superiore a quattro
anni di reclusione» (1). La vicenda traeva origine da una
richiesta formulata dalla difesa di un soggetto condannato
ad una pena detentiva di quattro anni di reclusione per il
delitto di cui all’art. 73, comma 1, D.P.R. n. 309/1990 (T.U.
Stupefacenti), al fine di chiedere la sospensione dell’ordi-
ne di carcerazione emesso nei confronti di tale soggetto
con riferimento al quale era stato notificato un ordine di
esecuzione senza sospensione, superiore a tre anni” il pub-
blico ministero ne sospende l’esecuzione.
La difesa del soggetto condannato sosteneva che il
giudice avrebbe dovuto dichiarare inefficace l’ordine di
esecuzione, in quanto esso doveva essere sospeso nono-
stante la pena da espiare eccedesse il limite dei tre anni,
atteso che l’art. 47, comma 3-bis, L. n. 354/1975, introdot-
to dall’art. 3, comma 1, lettera c), D.L. 23 dicembre 2013,
n. 146 (Misure urgenti in tema di tutela dei diritti fon-
damentali dei detenuti e di riduzione controllata della
popolazione carceraria), convertito, con modificazioni,
in legge 21 febbraio 2014, n. 10, consente una particolare
forma di affidamento in prova quando la pena detentiva
da eseguire non è superiore a quattro anni. Ne conseguiva
che la difesa chiedeva al giudice dell’esecuzione di dare
alla disposizione un’interpretazione costituzionalmente
orientata, dal momento che, a rigor di logica, la sospensio-
ne dell’esecuzione dovrebbe essere riconosciuta anche a
coloro che avessero subito una condanna a quattro anni di
reclusione, estendendo, di fatto, il beneficio di cui all’art.
656 comma 5 c.p.p. agli stessi, o, in subordine, di sollevare
questione di legittimità costituzionale. Il giudice rimet-
tente riteneva fondata la questione di legittimità costi-
tuzionale sussistendo profili di incostituzionalità dell’art.
656, comma 5, c.p.p., in relazione agli artt. 3 e 27 della
Cost. Il rimettente osservava, nell’ordinanza di rimessio-
ne, che «il differente regime tra chi risulti condannato a
pena infratriennale, e dunque ammesso all’affidamento in
prova, e chi risulti condannato a pena infraquadriennale,
ammesso all’affidamento in prova allargato, appare conse-
guente ad un disallineamento sistematico – non colmato
in sede di conversione del D.L. 146/2013 con L. 10/2014
mediante modifica dell’art. 656 comma 5 cit. – idoneo a
determinare una ingiustificata disparità di trattamento
tra la prima categoria di soggetti, beneficiari della citata
sospensione automatica, e la seconda categoria di sogget-
ti, i quali, benché parimenti ammessi alla fruizione delle
misure alternative alla detenzione, risultano irragionevol-
mente esclusi dal regime più favorevole dettato dall’art.
656 comma 5 cit.». Parimenti, il giudice rimettente rile-
vava che la disposizione censurata, comportando l’ingres-
so in carcere di chi può godere dell’affidamento in prova
“allargato”, sarebbe in contrasto con la finalità rieducativa
della pena prevista dall’art. 27, comma 3, Cost.
2. L’affidamento in prova e la sua evoluzione storica
Prima di entrare nel merito delle motivazioni che hanno
condotto alla pronuncia della Consulta, appare utile soffer-
marsi brevemente su quelli che sono i connotati e le origini
storiche dell’istituto dell’affidamento in prova al servizio
sociale, introdotto nel nostro ordinamento dalla legge 26
luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario
e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della
libertà). Tale istituto si configurava come l’unico beneficio
penitenziario che eliminava ogni rapporto del soggetto con-
dannato con il regime carcerario, in quanto consentiva ai
condannati ad una pena non superiore ad un determinato
limite di espiarla sotto il monitoraggio dei servizi sociali
così evitando la detenzione in carcere (2). Con riguardo al
limite di pena richiesto per l’accesso alla misura alternativa
alla detenzione in carcere, esso ha subito nel tempo varie
modifiche. Nella formulazione originaria era fissato ad anni
due ovvero ad anni tre per i soggetti di età inferiore agli
anni ventuno o di età superiore ad anni settanta; in seguito,
con la legge 10 ottobre 1986, n. 663 il limite di pena veniva
innalzato a tre anni, con l’eliminazione della distinzione in
base all’età del condannato; infine, con il D.L. 23 dicembre
2013, n. 146, il limite veniva elevato a quattro anni previa os-
servazione della durata di un anno del comportamento del
soggetto condannato. Fino al 1998 l’affidamento in prova al
servizio sociale non si presentava come un’alternativa vera
e propria alla detenzione breve, poiché richiedeva l’ingres-
so in carcere per almeno un mese, al fine di procedere alla
osservazione della personalità del condannato, necessaria
per la concessione della misura alternativa. Parimenti, fino
a tale momento l’art. 47 ord. pen. stabiliva un meccanismo
sospensivo dell’ordine di esecuzione che, per essere attiva-
to, richiedeva la presentazione dell’istanza di affidamento
in prova da parte dell’interessato all’autorità giudiziaria, la
quale sospendeva l’esecuzione fino alla decisione del Tribu-
nale di Sorveglianza che doveva decidere entro 45 giorni.
Con la emanazione della L. 27 maggio 1998, n. 165, c.d.
“Legge Simeone”, veniva corretta tale impostazione sotto
una triplice prospettiva (3).
In primo luogo, si prevedeva che la misura potesse es-
sere adottata senza procedere all’osservazione in istituto
allorquando il condannato, dopo la commissione del reato,
avesse tenuto un comportamento tale consentire di rite-
nere che l’affidamento potesse contribuire alla rieducazio-
ne del reo e assicurare la prevenzione del pericolo della
commissione di altri reati. In secondo luogo, si dava una
collocazione codicistica alla sospensione dell’esecuzione
nell’art. 656, comma 5, c.p.p. e si trasformava, conseguen-
temente, tale procedura che, precedentemente era attiva-
bile solo su impulso del condannato, in una procedura che
il pubblico ministero doveva attivare ex officio. La ratio
che aveva orientato la cosiddetta Legge Simeone era senza
dubbio la finalità deflattiva per far fronte al sovraffolla-
mento carcerario. A tal riguardo, vi erano anche esigenze
di equità, in quanto -come la dottrina ha osservato– l’espe-
rienza applicativa «dimostrava come a causa di ragioni di-
sparate, prevalentemente connesse alle condizioni sociali,
culturali ed economiche degli interessati che non poteva-
no disporre di un’adeguata e, soprattutto, efficace difesa,
l’istanza non veniva presentata tempestivamente, ma solo
dopo l’ordine di carcerazione, con la iniqua conseguenza
che per tali soggetti la concessione della misura alterna-
tiva interveniva quando la pena detentiva era già stata, in
tutto o in parte, scontata» (4).
L’accessibilità alla misura alternativa in oggetto è sta-
ta ampliata notevolmente dalla decretazione d’urgenza
conseguente alla sentenza della Corte Europea dei Diritti
dell’Uomo, 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia, con
la quale lo Stato italiano è stato condannato per violazio-
ne dell’art. 3 CEDU, per non avere rispettato il divieto di
trattamenti inumani o degradanti, essendo stati ritenuti,
nella vicenda in esame, inflitti ad alcuni detenuti a causa
delle condizioni di sovraffollamento carcerario che non
garantivano al singolo soggetto detenuto il necessario spa-
zio vitale (5). La Corte europea ribadiva un orientamento
giurisprudenziale, oramai consolidato, in base al quale
deve ritenersi di per sé integrata la violazione dell’art. 3
CEDU nel caso in cui ciascun detenuto disponga di uno
spazio personale pari od inferiore a tre metri quadri (6).
In tale occasione la Corte non si limitava ad accertare il
carattere inumano e degradante del trattamento detenti-
vo subito dai ricorrenti, ma dinanzi alla drammatica realtà
carceraria italiana e all’inefficacia dei rimedi risarcitori
interni, imponeva allo Stato italiano di adottare, entro un
anno dal passaggio in giudicato della presente pronuncia,
in forza dell’art. 44 § 2 CEDU, «un ricorso o un insieme
di ricorsi interni effettivi ed idonei ad offrire una ripara-
zione adeguata e sufficiente in caso di sovraffollamento
carcerario». Ne conseguiva che l’Italia, con i vari decre-
ti cc.dd. “svuotacarceri”, ha posto in essere delle misure
che hanno cercato di rendere più facile, ma con opinabili
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