Le investigazioni della difesa tra mito e realtà

AutoreNicola Triggiani
Pagine1-13

    Relazione svolta al Convegno Nazionale di Studi sul tema “1989- 2009: vent’anni di riforme alla ricerca di un difficile equilibrio tra accusa e difesa”, organizzato dall’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, dalla Camera Penale di Taranto e dall’Ordine degli Avvocati di Taranto (Grand Hotel Delfino, Taranto - 31 ottobre 2009).

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1. Premessa

Sono trascorsi vent’anni dall’entrata in vigore del “nuovo” c.p.p.: vent’anni nel corso dei quali il legislatore è intervenuto sulle norme varate nel 1988 in modo ondivago, contraddittorio e, talora, schizofrenico, ora per ampliare le garanzie e i diritti dell’imputato, dando piena attuazione ad alcuni fondamentali princìpi costituzionali (diritto di difesa, favor libertatis, contraddittorio), ora, al contrario, per restringerli, al fine di rispondere alle istanze di difesa sociale di volta in volta percepite come particolarmente pressanti e urgenti (contrasto alla criminalità organizzata di tipo mafioso, lotta al terrorismo internazionale, tutela della sicurezza dei cittadini, e così via).1

La disciplina delle investigazioni difensive, introdotta dalla l. 7 dicembre 2000, n. 397, costituisce un frammento significativo di questa incessante produzione normativa e rappresenta sicuramente una chiave di lettura importante per comprendere l’attuale fisionomia del nostro processo penale.2

Orbene, dopo aver ricostruito - sia pure sommariamente - le tappe salienti dell’evoluzione normativa (e giurisprudenziale) che ha portato alla progressiva valorizzazione delle investigazioni difensive, si tenterà di tracciare un bilancio dell’applicazione della novella del 2000, al fine di verificare se questo tentativo di riequilibrare accusa e difesa, operato quasi dieci anni or sono, abbia avuto successo, per poi esporre qualche breve riflessione sulle prospettive di riforma dell’istituto.

2. Il nuovo ruolo del difensore nel c.p.p. 1988: il “diritto di difendersi provando” e il “diritto di difendersi ricercando”

Per inquadrare correttamente il tema, dal punto di vista sistematico, occorre partire da un dato. Il sistema processuale, tendenzialmente accusatorio, configurato dal c.p.p. 1988 ha attribuito al difensore - e, in particolare, al difensore dell’imputato - un ruolo del tutto nuovo: durante la vigenza del c.p.p. 1930, egli era soltanto il garante dei diritti dell’imputato nell’ambito di attività poste in essere da altri organi (pubblico ministero e giudice); con il nuovo c.p.p. è stato, invece, chiamato a offrire un contributo, in termini di parità con l’accusa, alla formazione della materia del giudizio, proponendo una propria ricostruzione dei fatti, nell’interesse dell’assistito.3

Si è passati, insomma, - com’è stato efficacemente osservato - da una “difesa diposizione” - consistente nell’osservare il pubblico ministero, il giudice istruttore e poi il presidente del collegio che dipana le prove, in una vigile, attenta, intelligente, ma, di regola, passiva attesa circa il momento più propizio nel quale intervenire per assestare un qualche “colpo” utile per il proprio assistito - a una “difesa di movimento”, che impone al difensore di avere presente fin dall’inizio un progetto di difesa e di costruire, a seconda delle contingenze, una o più ipotesi alternative lungo le quali sviluppare la difesa, nella consapevolezza delle risorse probatorie disponibili.4

Questo ruolo attivo e dinamico assegnato al difensore - che implica necessariamente un maggiore e più quali- ficato impegno, oltre che una maggiore responsabilità, rispetto alla precedente assistenza tecnica dell’imputato nella fase istruttoria - deriva dall’adozione di un modello processuale “di parti” e dal principio dispositivo in materia di prove, consacrato nell’art. 190, comma 1, c.p.p. 1988.5

Accogliendo le sollecitazioni che Giuliano Vassalli aveva proposto già alla fine degli anni ‘60, il legislatore ha, infatti, sancito, in attuazione della direttiva n. 69 l. delega 16 febbraio 1987, n. 81 e di quanto già previsto dall’art. 6 n. 3 lett. d) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il “diritto alla prova”, vale a dire il diritto di tutte le parti del processo (sia quella pubblica, sia quelle private) di provare il rispettivo assunto: diritto che, quanto all’imputato e alle altre parti private, rappresenta la più concreta espressione del diritto di difesa - il c.d. diritto di “difendersi provando” - garantito dall’art. 24, comma 2, Cost.6.

Dal principio secondo cui “le prove sono ammesse a richiesta di parte”, non potendo il giudice né ricercare le

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fonti di prova, né, di regola, ammettere d’ufficio i mezzi di prova, nonché dal principio generale enunciato nella dir. n. 3 l. delega n. 81/1987 - che prevede la “partecipazione dell’accusa e della difesa su basi di parità in ogni stato e grado del procedimento” (oltre che la “facoltà” delle parti private, dei difensori e della persona offesa “di indicare elementi di prova e di presentare memorie in ogni stato e grado del procedimento”) - si è fatto dunque discendere, come necessaria conseguenza, il diritto della difesa a svolgere proprie indagini, parallelamente a quelle esperite dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero. Ciò al fine di ricercare, individuare e preventivamente delibare le fonti di prova occorrenti per sostenere efficacemente la ricostruzione dei fatti operata dal proprio assistito o contrastare validamente quella prospettata dall’accusa, come del resto avviene in tutti i Paesi i cui sono stati adottati modelli processuali di tipo accusatorio e, in specie, negli Stati Uniti d’America, dove le investigazioni costituiscono per il difensore oggetto di un preciso dovere deontologico.7

3. La disciplina delle investigazioni difensive nella formulazione originaria dell’art. 38 disp. att. c.p.p.

Al formale e solenne riconoscimento del principio dispositivo della prova non è però seguito un soddisfacente riscontro normativo in tema di investigazioni del difensore. A fronte di una disciplina analitica e minuziosa dell’attività investigativa svolta dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria, contenuta nel libro V del c.p.p., il legislatore aveva, infatti, riservato all’attività investigativa del difensore una sola disposizione, per di più collocata non nel corpus codicistico varato nel 1988, ma nelle disposizioni di attuazione del c.p.p., approvate con D.L.vo 28 luglio 1989, n. 271: l’art. 38 disp. att. c.p.p., rubricato, emblematicamente, “Facoltà dei difensori per l’esercizio del diritto alla prova”.

Da più parti, già nel corso dei lavori preparatori, si era evidenziato come sede più propria per la regolamentazione di una materia così irta di difficoltà e così nuova per il nostro ordinamento ed il nostro costume giuridico avrebbe dovuto essere quella del codice, e non già quella delle norme di attuazione. In seguito, la dottrina ha pressoché unanimemente criticato la scelta del legislatore delegato di non inserire la disciplina delle investigazioni difensive tra le norme del c.p.p.

Ma, al di là dell’inopportuna collocazione sistematica della normativa concernente le investigazioni del difensore, va sottolineato soprattutto come tale disciplina sia apparsa subito assolutamente generica e lacunosa. L’art. 38, comma 1, disp. att. c.p.p. si limitava, infatti, a disporre testualmente che, “al fine di esercitare il diritto alla prova previsto dall’articolo 190 del codice, i difensori, anche a mezzo di sostituti e di consulenti tecnici, hanno facoltà di svolgere investigazioni per ricercare e individuare elementi di prova a favore del proprio assistitoe diconferire con le persone che possano dare informazioni”, mentre il comma 2 puntualizzava che tale attività “può essere svolta, su incarico del difensore, da investigatori privati autorizzati”.

La formulazione dell’art. 38 disp. att. c.p.p., dunque, lasciava irrisolti alcuni profili essenziali (molti dei quali avevano, invece, trovato soluzione nella corrispondente previsione del progetto preliminare delle disposizioni di attuazione, ovverosia l’art. 33, che conteneva una disciplina assai più articolata di quella poi definitivamente approvata)8: non dava alcuna indicazione sulle persone contattabili dal difensore, sulle modalità dei colloqui, sulla possibilità di farsi rilasciare dichiarazioni scritte o di “verbalizzare” quelle orali o di eseguire eventualmente delle registrazioni magnetofoniche e, soprattutto, sull’eventuale utilizzazione processuale di tali dichiarazioni e, più in generale, dei risultati delle investigazioni compiute dal difensore o dai suoi ausiliari. Non chiariva, insomma, come potessero essere spesi, all’interno del procedimento, gli elementi di prova eventualmente raccolti dal difensore.

Queste vistose lacune della previsione normativa - dovute alla precisa e dichiarata scelta effettuata dal legislatore di dettare una “norma di attuazione” per così dire “programmatica” sull’investigazione difensiva, in quanto priva di un reale contenuto operativo, nell’auspicio di una successiva meditata iniziativa legislativa ad hoc9 - hanno aperto la strada in dottrina ad una pluralità di “opinioni”, più che di “interpretazioni” in senso tecnico, inducendo gli studiosi a profilare ricostruzioni ermeneutiche quanto mai eterogenee, soprattutto sul tema dell’utilizzabilità processuale degli elementi acquisiti dal difensore, anche se tese per lo più ad ampliare la portata operativa dello scarno art. 38 disp. att. c.p.p.

Di contro, la genericità del dettato normativo ha indotto la giurisprudenza di merito, e poi quella di legittimità, nei primi anni di applicazione del nuovo codice, a orientarsi in modo compatto su posizioni improntate alla massima chiusura, offrendo una lettura estremamente riduttiva dell’art. 38 disp. att. c.p.p. L’investigazione difensiva è stata considerata con sfavore, diffidenza e sospetto e si è sostenuto che, in definitiva, la norma in discorso era servita soltanto a rimuovere dei limiti deontologici al comportamento del difensore: non...

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