Intervento legislativo sul danno biologico

AutoreEdgardo Colombini
Pagine89-100

Page 89

Ricorderanno tutti come il D.L. 70 dell'8 marzo 2000 concernente «Misure contro l'inflazione» sia a suo tempo naufragato in Parlamento nella parte che particolare importanza rivestiva realizzando un intervento legislativo sulla materia sempre controversa del danno biologico.

Poiché l'idea era, in fondo, sostanzialmente interessante - anche se formulata con mende e lacune - pensiamo sia giusto ripartire da quel testo per formulare alcune considerazioni di carattere generale volte a chiarire se l'orientamento prospettato avesse una sua logica ed una sua funzione.

Disponeva l'articolo 3 del succitato decreto legge che «Il risarcimento dei danni alla persona di lieve entità, definita secondo i parametri di cui alle successive lettere, derivanti da fatto illecito è effettuato secondo i criteri e le misure seguenti:

a) a titolo di danno biologico permanente è liquidato un importo di lire 800.000 per ogni punto di invalidità per le lesioni fino al cinque per cento compreso e di lire un milionecinquecentomila per ogni punto di invalidità per le lesioni comprese tra il sei e il nove per cento compreso;

b) a titolo di danno biologico temporaneo è liquidato un importo di lire cinquantamila per ogni giorno di invalidità temporanea assoluta; in caso di invalidità temporanea inferiore al cento per cento la liquidazione avviene in misura corrispondente alla percentuale di invalidità riconosciuta per ciascun giorno».

Si precisa poi al secondo comma che «agli effetti di cui al comma precedente, per danno biologico si intende la lesione alla integrità psicofisica della persona, suscettibile di accertamento medico-legale; il danno biologico è risarcibile indipendentemente dalla sua incidenza sulla capacità di produzione di reddito del danneggiato».

Come si vede, in un testo legislativo, si definiva che debba intendersi per danno biologico mentre si stabiliva gli importi da liquidare a favore dei danneggiati da parte del civilmente responsabile e, per esso, dalla sua compagnia di assicurazione della responsabilità civile: ma non si trattava di una novità in senso assoluto.

Già il 21 novembre 1990 il Senato della Repubblica aveva approvato un disegno di legge (poi arenatosi alla Camera dei Deputati) in cui si prevedeva che «la tutela del diritto alla integrità fisica in caso di lesione, anche se ininfluente ai fini della capacità o attitudine a produrre reddito, si realizza su presupposti di uguaglianza e attraverso l'adozione di criteri uniformi». Pur non parlandosi ancora di danno psicofisico, ma soltanto di danni fisici, si impostava già allora una direttrice di marcia verso liquidazioni risarcitorie omogenee, astrette peraltro comunque al solo settore dei danni causati dalla circolazione dei veicoli a motore, atteso che il disegno di legge in questione riguardava esclusivamente alcune integrazioni e modifiche alla L. 24 dicembre 1969 n. 990 sulla assicurazione obbligatoria della responsabilità civile derivante dalla circolazione dei veicoli a motore e dei natanti; tanto, a rimarco della differenza esistente con il D.L. 70/2000 in cui, more solito, si mescolano elementi eterogenei e, soprattutto, si finisce con lo stabilire - con la generica dizione adottata - criteri di liquidazione dei danni conseguenti a qualsiasi fatto di cui un soggetto sia civilmente responsabile mentre lo spirito del provvedimento doveva essere quello di contenere gli esborsi dalla compagnie di assicurazione a fronte del blocco praticamente imposto alle tariffe dei contratti assicurativi della RC auto.

Stabiliva inoltre il succitato disegno di legge del 1990 che la liquidazione del danno previsto dal primo comma dell'art. 26 testé riportato dovesse effettuarsi sulla base dei criteri previsti dall'allegato B, secondo il quale «a) a titolo di danno temporaneo compete una indennità giornaliera pari a tre volte l'ammontare annuo della pensione sociale, diviso per trecentosessantacinque; b) a titolo di danno permanente compete un risarcimento da calcolarsi sulla base di 1-due volte l'ammontare annuo della pensione sociale per le invalidità permanenti fino al 9 per cento; 2-tre volte l'ammontare annuo della pensione sociale per le invalidità permanenti superiori a 9 per cento e fino al 50 per cento; 3-cinque volte l'ammontare annuo della pensione sociale per le invalidità permanenti superiori al 50 per cento».

Era un primo accenno legislativo al danno biologico individuato attraverso una circollocuzione, e non con una definizione, atteso che ci si limitava al riconoscimento di un diritto alla tutela di una non meglio precisata «integrità fisica, a prescindere dalla influenza che la stessa potesse avere o meno sulla attitudine a produrre reddito». Il risarcimento avrebbe poi dovuto essere calcolato - come si è visto - in una somma uguale per tutti in base a differenziati multipli della pensione sociale in funzione della crescente invalidità permanente residuata al danneggiato.

Alla integrità psico-fisica (quindi, non solo più alla integrità fisica) si faceva invece riferimento, sempre a prescindere dalla incidenza della lesione sulla capacità di produrre reddito, nel testo di legge approvato in via definitiva il 29 gennaio 1992 dal Senato, ma rimasto lettera morta per la mancata firma del Presidente della Repubblica, atteso che, al terzo comma dell'art. 19, era prevista la determinazione dei criteri per la liquidazione dei danni attraverso tabelle predisposte dal Ministero dell'Industria e del Commercio e dell'Artigianato, con buona pace per la ortodossia costituzionale della disposizione legislativa.

Poi si sciolsero le Camere e la questione ritornò di attualità nella proposta di legge approvata dal Senato il 24 marzo 1993, a sua volta rimasta orfana del voto della Camera dei Deputati.

Con il ritorno al riferimento del danno provocato dalla lesione della integrità psico-fisica si fissavano in questo testo legislativo i criteri per la liquidazione dei danni suddetti indipendentemente dalla incidenza che gli stessi potessero avere sulla capacità di produrre reddito, ma in quella occasione era eliminata qualsiasi indicazione circa il multiplo della pensione sociale, ancora una volta presa come punto di riferimento. All'allegato B si disponeva infatti che la liquidazione del danno dovesse essere effettuata, per la invalidità permanente, «sulla base di un valore multiploPage 90 dell'ammontare annuo della pensione sociale per ogni punto e per singoli scaglioni di invalidità permanente».

Era, cioè, la codificazione della più assoluta discrezionalità conferita ad ogni singolo magistrato nella determinazione di quel «valore multiplo».

Dopo tanti anni ecco quindi riaffacciare nella primavera del 2000 nella aule del Parlamento il vecchio problema con qualche indubbio miglioramento di impostazione ma con qualche indicazione affrettata - sotto l'urgenza di una inflazione nuovamente in ripresa - che ha giustificato un coro di critiche solo in parte fondato, secondo noi: il tutto poi condito con solito svarione di impostazione laddove si scrive che «il risarcimento dei danni alla persona di lieve entità, definita secondo i parametri di cui alle successive lettere, è effettuato secondo le misure» dianzi indicate.

A prescindere invero dal fatto che, come si può desumere dalla lettura dell'intero art. 3 del D.L. 70/2000, la «lieve entità» non era affatto definita «secondo i parametri di cui alle successive lettere» che fissavano, invece, gli importi delle liquidazioni per ogni punto di invalidità permanente e per ogni giorno di inabilità temporanea (forse si voleva scrivere «danni alla persona di lieve entità considerati secondo gli scaglioni di cui ai seguenti punti»: il che sarebbe stato correttivo, ma quando si procede alla garibaldina, allo scopo di tappare la bocca alle proteste, per contingenti convenienze neppur troppo coperte, questi sono i risultati che si ottengono, con buona pace per la chiarezza del discorso e per il rispetto della lingua italiana), la fraseologia del primo comma dell'art. 3 in questione poteva anche indurre, con una affrettata lettura rigidamente formale, qualcuno a sostenere che il danno economico conseguente alla incidenza di un sinistro sulla capacità lavorativa dell'individuo non esiste più per i danni di lieve entità, cancellato non da un tratto di pena ma da una svista colossale.

Quando si dice, infatti, che il risarcimento dei danni alla persona di lieve entità è risarcito a titolo di danno biologico permanente (lettera a) comma 1 dell'art. 3 del D.L. 70/2000), a titolo di danno biologico temporaneo e a titolo di danno morale secondo i criteri indicati, si potrebbe anche essere indotti nella tentazione di sostenere che il danno economico non è più riconosciuto, non è più risarcibile.

Certo, più correttamente, si sarebbe potuto scrivere che «il risarcimento del danno biologico - per tale intendendosi la lesione alla integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale (vedasi art. 3 - comma 2 del D.L. 70/2000) - riconoscibile indipendentemente dalla incidenza del sinistro sulla capacità di produzione di reddito da parte del danneggiato, è effettuato secondo i criteri e le misure seguenti».

Così come è sistemata al secondo comma dell'art. 3, la definizione del danno biologico non vale a modificare l'impressione di una disposizione pressapochista ricavabile dalla lettura della statuizione.

Se io scrivo che il risarcimento dei danni si effettua nei casi a), b) e c) posso lasciare intendere che per i danni alla persona di lieve entità unica rilevanza abbiano il danno biologico ed il danno morale mentre la successiva definizione del danno biologico assolve, in questa sua collocazione al secondo comma dell'art. 3, esclusivamente ad una funzione esplicativa, come confermato dalla stessa dizione di tale comma, secondo il quale «agli effetti di cui al comma precedente, per danno biologico si intende ecc. . . . ».

Diversa lettura - più tranquillante - si avrebbe se si fosse, invece, meglio chiarita...

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