Interventi precari e vincolo paesaggistico

AutoreLuca Ramacci
Pagine478-480

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Con la sentenza in esame la Corte di cassazione interviene, ancora una volta, sulla questione relativa alla disciplina degli interventi precari in zona sottoposta a vincolo paesaggistico.

Le conclusioni cui giungono i giudici appaiono pienamente condivisibili e la decisione contribuisce a fare chiarezza su un aspetto particolarmente delicato, con riferimento al quale le pronunce della Corte sono in numero assai limitato.

Va ricordato che la decisione riguarda una materia, quella della tutela del paesaggio, che è stata recentemente disciplinata dal D.L.vo 29 ottobre 1999 n. 490 (T.U. sui beni culturali ed ambientali) con il quale si è proceduto ad un intervento di riunione e coordinamento di tutte le disposizioni legislative vigenti in materia di beni culturali e ambientali e tra le quali sono comprese, ovviamente, anche le leggi 1497/39 e 431/85.

L'intervento operato con il D.L.vo 490, come ricorda la relazione, è in pratica consistito nel coordinamento sostanziale ed al riordino e semplificazione dei procedimenti amministrativi.

Per quanto attiene alla disciplina dei beni ambientali, la stessa è contenuta nel titolo secondo, articolato in tre capi, nel quale sono contenute una serie di norme che costituiscono il risultato dell'operazione di integrazione delle leggi in precedenza richiamate.

La violazione presa in esame dalla Corte, che qui interessa, è ora contemplata dall'art. 163 comma primo che sanziona penalmente «Chiunque, senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, esegue lavori di qualsiasi genere sui beni ambientali». Il secondo comma riguarda l'obbligo di rimessione in pristino già previsto dalla legge 431/85.

L'introduzione del testo unico ha dunque eliminato l'evidente indeterminateza del precetto (cui, in verità, avevaPage 479 posto rimedio la giurisprudenza) rinvenibile nell'art. 1 sexies della legge 431/85 chiarendo quali siano le condotte punibili ed indicando espressamente che le stesse coincidono non solo con l'esecuzione di interventi su aree protette in assenza della preventiva autorizzazione, ma anche nell'esecuzione di interventi in difformità dall'autorizzazione rilasciata.

La disposizione non distingue tra parziale o totale difformità come avviene invece per la disciplina urbanistica e deve pertanto ritenersi che sia idonea a configurare il reato in esame ogni difformità significativa dall'intervento autorizzato e tale da vanificare gli scopi di tutela e controllo che il legislatore ha assicurato agli organi competenti attraverso la preventiva verifica della consistenza delle opere da eseguire.

A fronte di tale rilevante innovazione resta tuttavia presente la evidente irrazionalità del sistema, riconosciuta anche dalla relazione ministeriale, consistente nella previsione di più gravi sanzioni per il reato di pericolo contemplato dalla disposizione in esame rispetto al reato di danno previsto dall'art. 734 c.p.

La decisione in rassegna risulta dunque senz'altro utile per l'interprete anche dopo l'intervento del legislatore che, come si è detto, appare contenuto entro i limiti sopra indicati.

Poiché, come si è detto, le decisioni in tema di interventi precari in zone vincolate sono in numero estremamente limitato, occorre prendere in esame preliminarmente la nozione di «opera precaria» risultante dalle elaborazioni della dottrina e della giurisprudenza.

La vigente normativa urbanistica non contempla infatti tale nozione che nasce dalla considerazione del fatto che la precarietà dell'intervento eseguito non determina una trasformazione irreversibile dell'assetto territoriale e, pertanto, non richiede il rilascio della concessione edilizia.

La Corte di cassazione ha in più occasioni indicato i limiti entro i quali deve essere effettuata l'individuazione della precarietà dell'intervento fornendo criteri interpretativi particolarmente rigorosi 1.

In particolare la Corte ha evidenziato che la verifica della natura precaria di un'opera va effettuata secondo un criterio obiettivo poiché l'intervento edilizio per essere qualificato come precario deve essere oggettivamente destinato ad un uso temporaneo e limitato.

Utilizzando tale criterio e pur tenendo in considerazione la natura dei materiali utilizzati e la limitata volumetria, si è esclusa la natura precaria di una baita 2 nonché di costruzioni prive di fondazioni e munite di ruote 3.

In tale ultimo caso la Corte ha anche chiarito la differenza tra il concetto di precarietà e quello di amovibilità, ritenendo quest'ultimo non rilevante ai fini della sussistenza del reato urbanistico.

Sono stati inoltre ritenuti irrilevanti la possibilità di una successiva demolizione del manufatto e la temporaneità della...

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