L’insegnante che dà lezioni private ad alunni che frequentano la scuola ove lavora commette abuso d’ufficio?

AutoreMario De Bellis
Pagine1132-1136

Page 1132

@1. I termini della questione

Con la sentenza che si annota, si afferma, fra l’altro, il principio che commette il reato di abuso d’ufficio1 l’insegnante (di scuola pubblica) che dia lezioni private ad alunni che frequentano la scuola ove lavora (peraltro dalla lettura complessiva della sentenza emerge che si trattava in effetti - fatto anche più grave - di alunni di una classe ove l’imputato insegnava).

Alla base di tale affermazione stanno:

- da un lato il riscontro dell’esistenza di una norma di regolamento che vieta agli insegnanti di dare lezioni private agli alunni che frequentano la scuola ove lavorano (art. 89 d.p.r. 31 maggio 1974 n. 417)2;

- dall’altro la qualificazione del compenso pagato dalle famiglie degli alunni per le lezioni private come “ingiusto profitto”.

Non esiste nessun precedente esattamente in termini, sotto la vigenza del testo attuale dell’art. 323 c.p..

Vigente invece la vecchia formulazione della norma antecedente al 1990, la Cassazione ebbe ad affermare che è ravvisabile il delitto di abuso d’ufficio nel comportamento di un’insegnante di scuola statale che abbia tratto occasione dai colloqui con i genitori di taluni allievi per segnalare ai medesimi, i quali chiedevano l’indicazione del nome di un insegnante privato, la disponibilità del proprio figlio a seguire a pagamento gli allievi nelle ore pomeridiane; ciò nella prospettiva, sia pure tacita, di una più favorevole valutazione ufficiale del profitto scolastico di tali allievi. Si ritenne infatti che in tale condotta fossero identificabili tutti gli elementi richiesti dall’art. 323 c.p. per l’integrazione della fattispecie penale, vale a dire l’abuso, posto in essere con la sostituzione di un fine meramente privato a quello pubblico nei contatti con i genitori e nel giudizio sugli allievi, per effetto della quale le due attività non hanno realizzato gli scopi loro assegnati dalla legge, e il dolo specifico, consistente nell’intento di procurare al proprio figlio un illecito vantaggio patrimoniale.3

Nella stessa sentenza la suprema Corte aveva anche qualificato come concussione un’analoga condotta, affermando che il delitto di cui all’art. 317 c.p., oltre che con la forma della costrizione, si consuma anche con quella della induzione per effetto della quale il privato soggiace alla posizione di preminenza del pubblico ufficiale che, abusando della propria qualità o funzione (“potere” secondo il testo dell’art. 317 c.p. novellato dall’art. 4 della legge n. 86 del 1990), faccia leva su di essa per suggestionarlo, persuaderlo, convincerlo, a dare o a promettere denaro o altra utilità per evitare un pregiudizio maggiore (nella specie, sulla scorta del principio di cui in massima, la Cassazione ritenne appunto configurabile il delitto di cui all’art. 317 c.p. nel comportamento di un insegnante di scuola statale che indicando a taluni genitori di allievi l’insufficienza dei figli, esponendo la necessità di farli seguire da una persona esperta e segnalando la propria disponibilità, aveva indotto i suddetti genitori a corrisponderle compensi in denaro per lezioni private illegittimamente impartite in violazione dell’art. 89, comma primo, d.p.r. 31 maggio 1974 n. 417).

In un ancora più remoto precedente la suprema Corte ebbe a rilevare che l’insegnante di scuola pubblica che, nelle ultime lezioni dell’anno scolastico, suggerisce agli alunni che saranno rimandati di farsi preparare per gli esami di riparazione da un suo parente, per procurare a quest’ultimo un vantaggio, abusa, violando il dovere di correttezza, della propria qualità e dei doveri ad essa inerenti, ponendo in essere una condotta che va inquadrata nello schema dell’art. 323 c.p., norma che contempla un’ipotesi di reato sussidiario, che trova applicazione tutte le volte che il pubblico ufficiale, per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio, ponga in essere un comportamento che esorbiti dai poteri inerenti alle sue funzioni e non integri un reato specificamente previsto da altra norma incriminatrice.4

Anche la giurisprudenza amministrativa ha confermato che al personale docente delle scuole statali non è inibito il libero insegnamento, salvo solo il limite del divieto di impartire lezioni private ad alunni del proprio istituto.5

Il principio, per come enunciato dalla Cassazione ed estrapolato dal caso concreto riferito a lezioni private date dall’imputato a propri alunni, rischia di avere una portata esplosiva, perché se ne potrebbe dedurre in termini più generali che il dipendente pubblico che in contrasto con il divieto di cui all’art.53 D.L.vo 30 marzo 2001 n. 1656 svolga un secondo lavoro non autorizzato e retribuito commetta un abuso d’ufficio.

@2. Il reato di abuso d’ufficio si commette nell’esercizio delle proprie funzioni

Si è sottolineato come le poche sentenze sul caso in esame si riferiscano al testo previgente dell’art. 323 c.p.. In effetti il testo originario della norma era incentrato sulPage 1133 concetto di abuso dei poteri inerenti alle funzioni ed il testo del 1990 su quello di abuso del proprio ufficio. Il testo attualmente vigente introduce invece l’ulteriore requisito della necessità che la condotta sia posta in essere “nello svolgimento delle funzioni o del servizio”.

Proprio avendo a mente il caso in esame, si è in dottrina escluso che potesse ancora ravvisarsi il reato di abuso d’ufficio a fronte di condotte di abuso realizzate dall’agente senza servirsi in alcun modo dell’attività funzionale svolta ed invece semplicemente sfruttando la propria qualifica e posizione. In tali casi infatti si sarebbe in presenza della violazione del solo dovere di correttezza, non rilevante ex art.323 c.p., ma semmai sanzionabile disciplinarmente.7

Anche la giurisprudenza di legittimità sembra escludere che il mero abuso della qualità e ancor meno il compimento di atti in occasione dell’ufficio possa dar luogo al delitto di abuso d’ufficio. Si è infatti affermato che ai fini della configurabilità del delitto di abuso di ufficio, l’atto amministrativo o il comportamento illegittimo deve essere posto in essere dal pubblico ufficiale nella sua qualità, e cioè agendo formalmente nella sua veste pubblica e nell’esercizio di pubbliche funzioni, mentre si deve ritenere non idonea a integrare gli estremi del reato in questione una condotta che, se pure posta in essere da persona che rivesta la qualità di pubblico ufficiale, non sia però espressione di tale qualità, come avviene nel caso in cui la qualità di pubblico ufficiale venga esibita semplicemente per rafforzare una pretesa privata o per ottenere un’adesione spontanea della controparte a siffatta pretesa; in tal caso, il comportamento del pubblico ufficiale, pur sempre contrario al dovere generico di correttezza e di imparzialità connesso all’esercizio della funzione, potrà eventualmente rilevare sotto il profilo disciplinare e anche integrare in ipotesi, ove concorrano gli elementi della violenza o della minaccia, estremi di reato (ad esempio, articolo 393 o articolo 610 c.p.), non però gli estremi del reato di cui all’art. 323 c.p..8

Non si può disconoscere l’esistenza di un precedente giurisprudenziale anche di segno contrario: in tale occasione la Cassazione ebbe ad affermare che, ai fini della sussistenza del reato di abuso di ufficio come novellato dalla legge 16 luglio 1997, n.234, risulta rilevante qualsiasi violazione di quelle norme di relazione che, prevedendo poteri coercitivi del pubblico ufficiale, da considerare sempre eccezionali, incidono tassativamente sulle libertà dei cittadini, sicché deve ritenersi che integri gli estremi del delitto la condotta del pubblico ufficiale il quale, dichiarando pretestuosamente di esercitare i poteri propri del suo ufficio, intenda avvalersene solo per sopraffare chi ostacoli i suoi scopi personali, non essendo necessario che il comportamento abusivo sia posto in essere nel corso di un regolare svolgimento delle funzioni o del servizio nè che il danno arrecato sia di natura esclusivamente patrimoniale (fattispecie in cui l’imputato, agente di polizia penitenziaria e pertanto in possesso di paletta segnaletica del corpo, utilizzò tale paletta al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni per impedire che alcune persone...

Per continuare a leggere

RICHIEDI UNA PROVA

VLEX uses login cookies to provide you with a better browsing experience. If you click on 'Accept' or continue browsing this site we consider that you accept our cookie policy. ACCEPT