Il consenso informato: quale spazio per il testamento biologico e l'amministrazione di sostegno?

AutoreCristina Colombo
Pagine21-28

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@Premessa

Il tema oggetto della presente indagine si inscrive in un'ampia problematica di stampo etico e sociale, fonte di contrasti ideologici che hanno finito per influenzare anche le scelte legislative in materia. In particolare, l'elemento sempre presente nell'elaborazione dottrinale è il rapporto medico-paziente 1, che, caratterizzato da una continua evoluzione, è passato da un modello paternalistico ad un modello basato sull'alleanza terapeutica in cui il malato è titolare della propria identità, dignità ed autodeterminazione, soggetto attivo e non più oggetto delle scelte terapeutiche del medico. Il superamento del c.d. paternalismo medico non deve comunque indurre a pensare che il rapporto tra il medico e il paziente si sia rovesciato e che il nuovo modello dia esecuzione alle scelte del malato anche quando non coincidano con quelle del sanitario. Alle due posizioni se ne aggiunge poi una terza caratterizzata dal rapporto biunivoco tra medico e paziente 2 e in questo quadro il consenso informato 3 assume il ruolo di elemento fondante la liceità di ogni trattamento, che, ad eccezione dei casi di incapacità o impossibilità, deve passare attraverso l'informativa medica riguardante modalità, tempi, rischi di ogni tipo di intervento. Il consenso informato costituisce, quindi, per il medico un vincolo 4, implica una relazione tra medico e paziente, in cui l'attività professionale del primo deve necessariamente coinvolgere il secondo. Il consenso informato mira a porre al centro dell'attenzione del medico la persona del malato per la quale l'informazione è un diritto» e non una concessione. Allora, il primo problema che deve affrontare lo studioso che si occupa del consenso attiene alla difficoltà di conciliare la libertà del consenziente con l'esigenza di tutela dell'interesse pubblico. È evidente che la libertà di consentire è sottoposta ad un "limite" e individuare questo limite significa determinare l'ampiezza della libertà individuale per consentire a condotte lesive o pericolose nei confronti dei propri diritti. In effetti, se in base alla dottrina tradizionale la funzione del diritto penale consiste prevalentemente 5 nella tutela dell'interesse pubblico, non può negarsi l'esistenza di uno spazio di disponibilità di cui l'individuo è titolare. Il problema principale sta nel fatto che questa libertà è condizionata da cambiamenti e nuovi bisogni, dovuti all'evolversi della vita umana e della società, rispetto ai quali l'ordinamento penale è chiamato ad esprimersi adeguandosi agli interessi volti al buon funzionamento del sistema. L'idea di protezione - di chiare e lontane origini illuministiche - non è però rivolta a tutti i beni, ma solo a quelli essenziali e quindi il problema è stato quello di dover individuare quelli socialmente rilevanti: oggi la risposta è nell'applicazione della teoria costituzionalmente orientata sul bene giuridico che vede la Costituzione come fonte prima e criterio di riferimento per il diritto penale.

@1. L'evoluzione storico-giuridica dell'informazione

Gli Stati Uniti - attualmente primo testimone dell'evoluzione continua dello standard d'informazione e dell'estrema incertezza della materia - sono considerati il luogo d'origine del consenso informato. Nel 1957, con la sentenza sul caso Salgo viene affermato per la prima volta il dovere per il medico di comunicare al paziente «ogni fatto che sia necessario a formare la base di un intelligente consenso al trattamento proposto». Il caso Salgo apre un problema sul fronte del rapporto tra consenso e informazione spostando il dibattito dal se informare a quale tipo di informazione dare. Il problema si concentra sullo standard di informazione richiesta: il primo standard legale affermato, seguito ancora oggi, è il cosiddetto standard professionale. Si deve attendere l'inizio degli anni '70 per l'elaborazione di uno standard incentrato sul paziente in base al quale l'informazione adeguata è quella di cui un paziente ragionevole avrebbe bisogno per decidere sulle sue cure 6. Tuttavia anche questo standard viene sottoposto a critiche non soddisfacendo né le esigenze del paziente, né quelle dei medici. Si fa strada così l'idea di uno standard soggettivo, legato alla persona specifica sulla quale devono essere praticati i trattamenti.

Ora, spostando la nostra analisi sull'ordinamento italiano vediamo come il trattamento medico-chirurgico non è disciplinato da una esplicita regolamentazione penale, pertanto l'attività medica è potenzialmente idonea ad inquadrare fatti di reato come per esempio le lesioni personali e la fattispecie di omicidio. Così, fino agli anni '90 il consenso e stato preso in considerazione, insieme allo stato di necessità (ex art. 54 c. p.), quale causa di giustificazione nella ricerca del fondamento di liceità debtrattamento medico. Il penalista si è preoccupato di individuare una cornice normativa in cui collocare l'attività medico-chirurgica portando allaPage 22 formazione di diverse scuole di pensiero. Una corrente, improntata sul risultato, ritiene che in caso di esito fausto l'intervento medico sia giustificato in base alla mancata tipicità della condotta, mentre, in caso di esito infausto, la liceità del comportamento del medico dovrebbe basarsi su una causa scriminante, tacita od espressa 7. Secondo un'altra impostazione, orientata sul mezzo, il problema della liceità dell'attività medica prescinde dal risultato e viene ricondotto al valore sociale delle pratiche mediche. Alcuni Autori ricondurrebbero tale liceità all'adeguatezza sociale, essendo evidente l'alto valore che l'attività medica ricopre nella società come attività socialmente adeguata 8. In questa prospettiva, l'attività medica consentita, lecita in quanto finalizzata a migliorare le condizioni di salute del soggetto, si pone al di fuori del fatto tipico. Altro filone dottrinale 9 ritiene corretto fondare la liceità dell'attività medica attraverso una causa di giustificazione codificata rinvenibile, a seconda dei casi, nel consenso dell'avente diritto (art. 50 c.p.), nell'adempimento del dovere (art. 51 c.p.) o nello stato di necessità (art. 54 c.p.). All'interno di questa prospettiva alcune teorie giuridiche limitano l'importanza del consenso, quale condizione di liceità dell'operato del medico, escludendo che esso sia sempre idoneo a scriminare l'attività medico-chirurgica: ad esempio, secondo alcuni Autori 10, il consenso è necessario, ma non sufficiente nei casi in cui il trattamento sanitario richieda lesioni o mutilazioni che eccedono il limite di disponibilità di cui all'art. 5 c.c., soccorrendo, in simili momenti, l'ulteriore causa di giustificazione dello stato di necessità.

Negli ultimi anni, per la spinta di profondi mutamenti sociali sui temi della salute, il dibattito in questione ha avuto un importante sviluppo, come dimostra anche l'istituzione di un Comitato Nazionale per la Bioetica 11. Per affrontare compiutamente il nostro tema occorre però considerare anche tutte le fonti normative, a partire dalla Costituzione (artt. 2, 13, 32), per poi volgere l'attenzione alle leggi ordinarie e al codice di deontologia medica. Posto che le norme Costituzionali fondano, ma non disciplinano il consenso informato, i primi atti legislativi richiedenti un consenso consapevole possono essere ravvisati nell'art. 4 della legge 25 luglio 1956, n. 837, in tema di riforma della legislazione vigente per la profilassi delle malattie veneree; nonché nell'art. 2 della legge 26 giugno 1967, n. 458, in materia di trapianto di rene tra persona viventi, il quale richiede che il donatore sia consapevole delle conseguenze che il suo sacrificio comporta. Altre disposizioni normative richiedono il consenso solo come atto di mera volontà: come la legge 13 maggio 1978, n. 180, che disciplinando gli accertamenti e i trattamenti sanitari volontari e obbligatori, all'art. 1, 5º comma, sancisce che gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori (...) devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione di chi vi è obbligato; negli stessi termini l'art. 33, 5º c. della legge 23 dicembre 1978, n. 833, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale. Il primo riferimento esplicito al consenso informato appare solo con l'art. 3 della legge 4 maggio 1990, n. 107, disciplinante l'attività trasfusionale del sangue come pratiche sanitarie per le quali è necessario il consenso informato del ricevente e con l'art. 5 della legge 5 giugno 1990, n. 135, titolata Programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro l'AIDS per il quale nessuno può essere sottoposto senza il suo consenso ad analisi tendenti ad accertare l'infezione da HIV se non per motivi di necessità clinica nel suo interesse. Assicurano poi "una corretta informazione" l'art. 7 della legge 2 maggio 1992, n. 210, in materia di indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da vaccinazioni obbligatorie, la legge n. 91 del 1999 in materia di consenso all'espianto di organi post-mortem; i D.L. 17 febbraio 1998, n. 23 e 16 giugno 1998, n. 186 e i D.M. 15 luglio 1997 e 6 novembre 1998 in materia di sperimentazioni. Il consenso - mero atto dispositivo - emerge poi nel codice di deontologia medica (l'art. 32 del codice di deontologia medica del 1998), nonché in alcune legislazioni straniere 12. La rilevanza delle fonti non legislative, quale il codice deontologico, si collega ai contenuti della colpa, ex art. 43 c.p., ma non sul piano dell'obbligo giuridico rilevante ex art. 40 c.p., per mancanza di una fonte giuridica che prevede lo specifico obbligo. Nell'aprile del 1997 è intervenuta anche la "Convenzione di Oviedo" per la protezione dei diritti dell'uomo e della dignità dell'essere umano rispetto alla utilizzazione della biologia e della medicina. Convenzione resa esecutiva in Italia con la legge 28 marzo 2001, n. 145. L'art. 1 del Capitolo I - Disposizioni generali - pone al centro del sistema i diritti e le libertà fondamentali di ogni...

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