L’incerto regime applicativo della recidiva e gli spazi di discrezionalità del giudice

AutoreClaudio Tranquillo
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1. Così come riformato dall’art. 4 della L. 5 dicembre 2005, n. 251, l’istituto della recidiva integra ormai una fattispecie di assoluto rilievo nella pratica giudiziaria, essendosi posto rimedio per via legislativa a una corriva, sostanziale (dis)applicazione dell’istituto. Ciò giustifica lo scopo di queste pagine, consistente nel cercare di delineare le principali regole operative che caratterizzano la circostanza in esame; a tutto voler concedere alla tesi che ritiene che la recidiva integri nulla più che un elemento di commisurazione della pena ai sensi dell’art. 133 c.p. ovvero una qualificazione giuridica di natura soggettiva (in sintesi, uno status)1, si deve infatti replicare, data la pluralità di richiami normativi (cfr. in primis l’art. 70, comma secondo, c.p.) e l’inserimento dell’istituto in contesti relativi al giudizio di bilanciamento (cfr. l’art. 99, comma quarto, c.p.), che almeno a determinati fini l’istituto in esame operi come una vera e propria circostanza aggravante. Ciò premesso, s’intende mettere anzitutto in rilievo quali siano gli effettivi spazi di discrezionalità del giudice, e sotto quali profili invece lo stesso sia vincolato al dettato legislativo.

Occorre allora subito evidenziare come in alcun modo il giudice sia vincolato dal fatto che l’imputato, in passato, abbia già riportato una condanna per un delitto non colposo. Il mero fatto di una precedente condanna, infatti, appare troppo equivoco per giustificare i significativi aumenti di pena previsti dal legislatore; è infatti evidente che una precedente condanna, magari in epoca risalente (e in ipotesi quando l’imputato era in giovane età), per esempio per ingiuria, poco esprima con riguardo al complessivo disvalore relativo a un reato per esempio di rapina, tanto più se quest’ultima è avvenuta a parecchia distanza di tempo del primo reato; per contro, è evidente che la condanna per spaccio di sostanze stupefacenti ex art. 73 D.P.R. n. 309/1990 può bene assumere rilievo nei confronti di un soggetto accusato del medesimo tipo di reato, specie se commesso a distanza di pochissimo tempo dal precedente.

La pluralità di casi sottoposti all’attenzione quotidiana del giudice, esemplificata dai due casi estremi suddetti, è tale da porre in evidenza come sia irragionevole adottare in entrambi i casi un aumento di pena per il solo fatto di una precedente condanna; quest’ultima di per sé presa, come per esempio nel primo caso, non sembra esprimere alcun maggiore disvalore della condotta ascritta all’imputato; ne consegue che applicare in entrambi i casi un aumento di pena appare del tutto irragionevole, siccome fonte di trattamenti sanzionatori eguali in presenza di circostanze di fatto diverse: con evidente lesione dell’art. 3 Cost.

Al fine di evitare che l’eccessiva astrattezza del dettato normativo generi applicazioni integranti una disparità di trattamento, e in alternativa al sollevamento di una questione di legittimità costituzionale, s’impone in capo al giudice l’esercizio di un potere discrezionale, che gli consenta di ritenere la sussistenza della recidiva solo nei casi in cui la pluralità di reati commessi sia espressione di una “più marcata pericolosità del reo ovvero indice della sua maggiore colpevolezza”2.

2. Chiarite la necessità e la funzione della discrezionalità del giudice in punto di an della recidiva, si deve subito sgombrare il campo da un equivoco ormai invalso; si ritiene infatti che la recidiva ricorra sulla base del solo presupposto formale della pluralità di condanne, ferma restando la “facolta” del giudice, se ritiene incongrua la misura della pena determinata dall’applicazione della recidiva stessa, di disapplicare tale circostanza. Tale facoltà deriva dal richiamo operato dai primi commi dell’art. 99 c.p. al fatto che la pena “può” essere aumentata.

Occorre premettere che nel vigore della precedente normativa tale era l’orientamento giurisprudenziale prevalente3, in base al quale in presenza di una precedente condanna vi era l’obbligo del giudice di considerare la recidiva esistente, “temperato” dal potere di non aumentare la pena (e fermi restando gli effetti c.d. minori della recidiva).

La tesi è senz’altro erronea. Una volta ritenuta l’esistenza della fattispecie della recidiva non vi è la possibilità di negare rilievo agli effetti che la legge vi riconnette: ciò per la struttura stessa della norma giuridica, che si esprime proprio attraverso il principio di consequenzialità tra fattispecie ed effetto. Del resto, neppure può essere attribuito soverchio rilievo al fatto che il legislatore si esprima nel senso che la pena “può” essere aumentata. Se si ritiene che ricorra l’aggravante in questione, e se la stessa non è considerata equivalente o soccombente rispetto alle eventuali attenuanti, ricorre un preciso obbligo del giudice di aumentare la pena, posto che quel “può” deve essere inteso, ai sensi dell’art. 64, comma primo, c.p., come facoltà di determinare la misura dell’aumento fino al massimo di un terzo: e dunque anche solo di un giorno di pena detentiva o di un euro di pena pecuniaria (ricorre dunque una discrezionalità solo nel quantum della pena). La stessa Corte costituzionale (sent. n. 192 del 1997, cit.) ha chiarito che la forma verbale “può” indica solo una discrezionalità sul quantum dell’aumento della pena “variabile tra un minimo e un massimo”, in contrapposizione all’espressione “l’aumento di pena (…) è” di cui al comma quarto dell’art. 99, c.p., la cui perentorietà sta a indicare la predeterminazione a opera esclusiva del legislatore della misura dell’aumento di pena.

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La stessa Corte costituzionale ritiene quindi necessario un aumento di pena nei casi in cui ricorra la recidiva (ancorché suscettibile, a seconda dei casi, di giudizio di bilanciamento), e non già la facoltà di non aumentare la pena. Chiarissime in questo senso anche le parole di quella dottrina che osserva che “la recidiva è presente […] in quanto il giudice nel caso concreto ne abbia individuato (tutti) i presupposti; e, dichiarandola, il giudice deve aumentare la pena (salvo che, pure ritenendone sussistenti i presupposti, dichiari tuttavia prevalenti o equivalenti le attenuanti)”4.

Del resto l’idea di una “facoltatività” (concetto espressamente evocato per esempio da Corte cost. 14 giugno 2007, n. 192, in pt. 3.3. della motivazione), a differenza di quella di discrezionalità, appare sommamente inopportuna perché evoca l’idea, di matrice giusprivatistica, di un potere o comunque di una situazione giuridica di vantaggio essenzialmente libera nei fini (tipico esempio: la facoltà del proprietario di esercitare o meno i suoi diritti a fronte dell’altrui occupazione del fondo) della quale non è neanche a parlarsi in ambito penale, quanto meno perché ciò contrasterebbe con il diritto di difesa ex art. 24 Cost., che tutto postula fuorché la possibilità di una decisione non motivata in punto di (aumento per effetto della recidiva della) pena da parte del giudice.

A rigore, la discrezionalità specifica della recidiva attiene quindi all’an della stessa (ancorché in ipotesi elidibile tramite un eventuale giudizio di comparazione delle circostanze; espressione anche questo di discrezionalità, ma evidentemente ulteriore e logicamente successivo a quello che attiene all’esistenza dell’aggravante della recidiva). Che il giudice possa esercitare una discrezionalità anche in sede di circostanze non è infatti una novità: “come avviene per le circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis c.p. […] si è in presenza a rigore sì di una discrezionalità, ma non di una facoltatività”5. Opinare il contrario significherebbe argomentare che il giudice potrebbe ritenere sussistente l’ultima attenuante citata, e decidere “facoltativamente” (ossia liberamente) di non applicarla.

Si potrebbe osservare che l’intera impostazione ha un sapore un po’ scolastico, senza significativi risvolti a livello operativo, ma proprio la prassi smentisce tale ultimo assunto.

3. Il problema si pone, tipicamente, nel caso di contestazione da parte del pubblico ministero di una recidiva reiterata a fronte di un imputato con una pluralità di...

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