L'evoluzione internazionale della giustizia penale minorile e il processo penale italiano a carico di imputati minorenni: riflessioni a vent'anni dalla ratifica della Convenzione internazionale sui Diritti del Fanciullo

AutoreTriggiani Nicola
Pagine117-125

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Dottrina

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di Nicola Triggiani (*)

1. L’art. 2 della legge delega del 16 febbraio 1987, n. 81, con la quale il Governo fu delegato a emanare il nuovo codice di procedura penale, faceva espresso riferimento, nel preambolo, alla necessità non solo di attuare i princìpi della Costituzione, ma anche di adeguare il nuovo processo penale “alle norme delle Convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale”.

A sua volta, l’art. 3 della legge delega n. 81/1987 delegava il Governo a disciplinare il processo a carico di imputati minorenni al momento della commissione del reato “secondo i princìpi generali del nuovo processo penale, con le modificazioni ed integrazioni imposte dalle particolari condizioni psicologiche del minore, dalla sua maturità e dalle esigenze della sua educazione”, nonché, in particolare, dall’attuazione di una serie di criteri contrassegnati con le prime quattordici lettere dell’alfabeto.

Orbene, la “Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo”, approvata a New York il 20 novembre 1989, è stata firmata dall’Italia il 26 gennaio 1990 ed è stata ratificata e resa esecutiva con la l. 27 maggio 1991, n. 176, entrando in vigore il 5 ottobre dello stesso anno (1), dunque quasi due anni dopo l’entrata in vigore delle disposizioni del nuovo c.p.p. e delle correlate norme sul processo minorile (24 ottobre 1989), rispettivamente contenute nel

d.p.r. 22 settembre 1988, n. 447 e nel d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448 (2): questo comporta, evidentemente, che la Convenzione non possa essere considerata tra le “fonti originarie” del “nuovo” processo penale minorile, anche se fa ormai parte dell’ordinamento italiano, con la conseguenza che qualunque eventuale nuova disposizione in tema di processo minorile successiva a quella data dovrà necessariamente adeguarsi alle previsioni convenzionali (come, del resto, è già accaduto in talune occasioni).

In particolare, come chiarito dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, gli obblighi internazionali costituiscono un vincolo per il legislatore ordinario a norma dell’art. 117, comma 1°, Cost., in forza del quale “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” (3).

D’altronde, benché dal punto di vista formale la Convenzione di New York non possa annoverarsi tra le fonti delle norme sul processo penale minorile entrate in vigore contestualmente al c.p.p. 1988, possiamo sicuramente affermare che i princìpi sanciti nella Convenzione in tema di processo penale a carico dei minori sono stati ben presenti al legislatore delegante e, poi, al legislatore delegato. Ciò in quanto tale Convenzione rappresenta un punto d’arrivo dell’evoluzione internazionale nella tutela dei diritti anche con riferimento alla giustizia penale minorile, della quale il legislatore italiano ha tenuto conto (4): una evoluzione che - prendendo le mosse dalla “Dichiarazione dei diritti del fanciullo”, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1959 - trova i suoi momenti salienti nell’approvazione delle “Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile”(le c.d. “Regole di Pechino”), adottate dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la Risoluzione n. 40/33 del 29 novembre 1985, e nell’approvazione della “Raccomandazione n. 20/87 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sulle risposte sociali alla delinquenza minorile”, adottata a Strasburgo il 17 settembre 1987.

È appena il caso di rilevare che quelli richiamati sono atti internazionali di diversa natura giuridica e, come tali, produttivi di conseguenze giuridiche di diverso tenore
(5).

Nel caso della “Dichiarazione dei diritti del fanciullo”

del 1959, ci troviamo di fronte a una tipica dichiarazione di princìpi delle Nazioni Unite, priva, come tale, di qualunque effetto giuridico obbligatorio nei confronti degli Stati.

Arch. nuova proc. pen. 2/2012

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Questa dichiarazione, d’altronde, non contiene alcuno specifico riferimento al processo penale a carico di imputati minorenni, pur sancendo un principio importante - poi costantemente ribadito nei successivi atti internazionali - che è quello della tutela del “superiore interesse del minore”.

Con le “Regole minime per l’amministrazione della giustizia minorile”, le Nazioni Unite hanno voluto affrontare un preciso aspetto della protezione dell’infanzia: esse rappresentano il primo, e fino ad ora unico, documento inter-nazionale che fissi un insieme di regole organiche dedicate in maniera specifica ai problemi della giustizia minorile. Queste Regole - prive di valore obbligatorio - dovrebbero costituire lo schema di riferimento per l’attuazione di una soglia minima di tutela giurisdizionale: perseguono, cioè, lo scopo di fissare alcuni concetti-chiave, attorno ai quali i singoli ordinamenti giuridici nazionali potrebbero costituire le rispettive legislazioni, impegnando anzitutto gli Stati membri a “creare le condizioni per assicurare al minore una vita proficua all’interno della comunità”, anche al fine di “tenerlo il più lontano possibile dalla criminalità e dalla delinquenza, durante il periodo di vita in cui è più esposto a un comportamento deviante” (art. 1, secondo comma) (6).

Quanto, poi, alla “Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sulle risposte sociali alla delinquenza minorile” del 1987 si tratta, per l’appunto, di una “raccomandazione”, volta, tra l’altro, all’attuazione di politiche globali finalizzate alla prevenzione del disadattamento e della delinquenza giovanile, all’uscita dal circuito giudiziario, allo sviluppo di procedure di degiurisdizionalizzazione (c.d. “diversion”) e di ricomposizione del conflitto da parte dell’organo che esercita l’azione penale (c.d. “mediation”), nonché alla creazione di un sistema di giustizia minorile adeguato alle esigenze dei giovani coinvolti nel circuito penale.

La “Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo” del 1989, invece, è un trattato multilaterale e, come tale, vincola pienamente gli Stati che l’hanno ratificata (7). Dal punto di vista sostanziale, rappresenta a livello universale l’ultimo traguardo in senso cronologico del processo di specificazione dei diritti del fanciullo, creando un insieme di previsioni che si sovrappongono, per quanto riguarda i minori, a quelle contenute nel “Patto internazionale sui diritti civili e politici” e nel “Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali” approvati in sede O.N.U. il 16 dicembre 1966, ma che non si rivolgono più alla gene-ralità degli essere umani, bensì sono destinate alla tutela specifica dei minori di età - in quanto soggetti deboli e vulnerabili -, anche quando ripetono garanzie di portata generale (8). In questo modo, si acquista il vantaggio di adattare il contenuto dei singoli diritti alle esigenze peculiari poste dalla giovane età, fornendo agli Stati delle direttive chiare cui attenersi nell’adozione delle misure richieste a tal fine.

La Convenzione di New York rappresenta, dunque, l’espressione di una cooperazione davvero “matura” rispetto alla considerazione complessiva dei diritti dell’uomo (9) ed è diventata uno spartiacque e un punto di riferimento per tutte le azioni degli Stati in favore dei diritti dei minori in ambito nazionale e internazionale (10). Da segnalare anche che, con la Convenzione del 1989, si inaugura una nuova concezione del minore: non più “minus habens”, protetto per la sua immaturità, ma “uomo in fieri”, soggetto portatore dell’intera gamma dei diritti umani (11).

Le enunciazioni contenute nelle “Regole di Pechino” e nella Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 1987, dunque, hanno sicuramente costituito la base per le previsioni in tema di giustizia penale minorile contenute nella Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo (12) e, come già ricordato, sono state prese in debita considerazione dal legislatore italiano, ispirando le linee portanti della riforma del 1988 (13). Questi documenti internazionali - come si legge nella Relazione al progetto preliminare delle disposizioni a carico di imputati minorenni - ribadiscono il diritto del minore a tutte le garanzie processuali e ne sollecitano un rinforzo, ma pongono anche in guardia dai rischi e dai pregiudizi che possono derivare al minore dal contatto con l’apparato della giustizia e dall’ingresso nel circuito penale e sollecitano misure che riducano tali rischi, favoriscano la chiusura anticipata del processo nei casi più lievi, consentano una fuoriuscita dal circuito penale attraverso interventi precoci di sostegno e di messa alla prova, assicurino la specializzazione degli organi e degli operatori della giustizia minorile a tutti i livelli.

2. Così ricostruite, in estrema sintesi, le tappe salienti dell’evoluzione della giustizia penale minorile a livello sovranazionale (14), è possibile verificare se lo stato della nostra legislazione processuale a livello nazionale possa dirsi pienamente rispondente alle previsioni degli atti internazionali e, in particolare, a quelle contenute nella Convenzione internazionale sui diritti del fanciullo.

Premesso che “il fanciullo, a causa della sua mancanza di maturità fisica e intellettuale, necessita di una protezione e di cure particolari, ivi compresa una protezione legale appropriata” - così recita il Preambolo della Convenzione di New York - l’art. 1 della citata Convenzione afferma che per “fanciullo” deve intendersi “ogni essere umano avente un’età inferiore a...

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