Parte civile non impugnante e tutela delle pretese risarcitorie nella giurisprudenza di legittimità

AutoreFrancesco Nuzzo
Pagine671-684

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@1. Generalità

La tutela risarcitoria della parte civile non impugnante è oggetto di un forte contrasto dottrinale e giurisprudenziale, poiché un orientamento interpretativo nega che il giudice d’appello possa condannare al risarcimento del danno l’imputato assolto in primo grado, ove il danneggiato costituito non abbia esperito impugnazione,1 mentre altro indirizzo ermeneutico conclude in maniera opposta, sostenendo che, per il principio di immanenza della costituzione di parte civile, costei, anche se non abbia attivato gli strumenti di gravame, può giovarsi dell’appello del pubblico ministero.2

Siffatta difformità è destinata a permanere sul piano teoretico, in quanto gli argomenti a sostegno delle diverse opzioni, condizionate da scelte non sempre coerenti del legislatore, risentono di stratificazioni dogmatiche talvolta acquisite in maniera tralaticia, e soprattutto di dinamiche relative ai meccanismi di controllo sulle pretese del danneggiato: queste dinamiche “conviv(o)no con gli altri principi che, all’interno del sistema processuale, presiedono alla partecipazione della parte privata al rito penale, fra cui, per l’inerenza alla materia che ne occupa, il principio dell’accessorietà dell’azione civile all’azione penale”.3 Il quale, come si evince dalle molteplici disposizioni che rafforzano le garanzie della parte civile e dell’azione a presidio delle sue istanze patrimoniali (art. 98, art. 100, comma 1, art. 178, comma 1, lett. c),art. 208, art. 538, comma 2, art. 539, comma 1, art. 540, comma 2, art. 573, art. 576, art. 601, comma 4, art. 605, comma 2, c.p.p.), appare indubbiamente ridimensionato rispetto al sistema del codice previgente,4 che presupponeva la necessaria pronuncia della condanna penale per la decisione sulla domanda civilistica, mentre le regole attuali consentono di basare il vincolo di accessorietà non solo sulla condanna, ma anche sull’accertamento dell’esistenza del reato, non punibile o estinto.5

Come è stato osservato, questo nuovo significato del principio di accessorietà emerge con fatica, poiché il legislatore della riforma non ha avuto la volontà o la capacità di abbandonare la tradizionale dipendenza della pronuncia civile dalla condanna penale, che continua a valere come requisito imprescindibile nel giudizio di primo grado, all’esito del quale il giudice non può provvedere sulla domanda della parte civile se dichiara estinto il reato per amnistia o per prescrizione. Nei giudizi di impugnazione, invece, la mutata e ridotta struttura dell’accessorietà appare di plastica evidenza: l’esempio si rinviene nell’art. 578 c.p.p., che abilita il giudice superiore, ove sussista una delle ricordate cause estintive, a decidere sul gravame ai soli effetti delle disposizioni o dei capi della sentenza concernenti gli interessi civili,6 naturalmente se in primo grado sia stata affermata la responsabilità dell’imputato e pronunciata condanna anche generica alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato.7

In ordine ai rimedi esperibili dalla parte civile contro la pronuncia di primo grado, il compendio di possibilità è racchiuso nell’art. 576 c.p.p., il quale distingue nettamente tra l’impugnazione promossa avverso la sentenza di proscioglimento, che rileva ai soli effetti della responsabilità civile, dall’impugnazione dei soli capi civili, ammessa avverso la sentenza di condanna. Con la prima si può chiedere l’accertamento della responsabilità penale dell’imputato, come logico presupposto della sua condanna alle restituzioni e al risarcimento del danno,8 benché sia immodificabile la decisione penale che, quando manca l’impugnazione del pubblico ministero, passa in giudicato; la declaratoria di responsabilità per un fatto previsto dalla legge come reato ha la funzione di giustificare la condanna dell’imputato al ristoro delle pretese patrimoniali e non patrimoniali. La parte civile, tuttavia, non può limitare la sua istanza soltanto all’affermazione di penale responsabilità sul fatto-reato, giacché il petitum sarebbe diverso da quello fissato dalla legge: la domanda civile deve assolutamente concorrere e le richieste del danneggiato costituito, a pena di inammissibilità, devono fare riferimento specifico e diretto agli effetti di natura civile che si intendono perseguire. Una prospettazione della parte civile, avente di mira unicamente la responsabilità penale dell’imputato prosciolto nel precedente grado di giudizio, porta a fulminare il gravame con la sanzione di inammissibilità, perché l’organo giurisdizionale superiore viene sollecitato a delibare solo in merito a un aspetto penale, che esula dai margini tracciati in proposito dalla legge.

L’art. 576 c.p.p. introduce una deroga al disposto dell’art. 538 c.p.p., legittimando la parte civile non soltanto a proporre impugnazione contro la sentenza di proscioglimento emessa in giudizio, ma anche a chiedere l’afferma-Page 672zione di responsabilità penale dell’imputato ai soli effetti civili e l’accoglimento della domanda di restituzione o di risarcimento del danno. Pertanto il giudice del gravame, chiamato a pronunciarsi su una domanda civile necessariamente dipendente da un accertamento sul fatto-reato, e dunque sulla responsabilità dell’autore dell’illecito extracontrattuale, può, seppure in via incidentale, statuire in modo difforme sul fatto oggetto dell’imputazione e ritenerlo ascrivibile al soggetto prosciolto. La res iudicanda, in casi del genere, si sdoppia e dà luogo a differenti decisioni, potenzialmente in contrasto tra loro: il conflitto potrebbe rimanere interno alla giurisdizione penale oppure manifestarsi tra giudici di giurisdizioni diverse. Infatti, ai sensi dell’art. 622 c.p.p. la Corte di cassazione, se annulla esclusivamente le disposizioni o i capi della sentenza che riguardano l’azione civile ovvero accoglie il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato, “rinvia, quando occorre, al giudice competente per valore in grado di appello, anche se l’annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile”. Ove sia integrata una delle ipotesi considerate dall’art. 620 c.p.p. e debba farsi luogo alla fase rescissoria, con rinvio ad altro giudice di merito, il capo della sentenza annullato è sottoposto alla cognizione del giudice di appello civile. Evidente la singolarità dell’istituto, per il quale sullo stesso fatto si avrà una decisione intangibile del giudice penale e, con riferimento alla responsabilità per il risarcimento del danno, una decisione del giudice civile, magari in antitesi netta con la precedente, perché relativa non solo alla liquidazione del danno già certo nella sua essenza, ma proprio all’accertamento della questione della responsabilità nella sua interezza. In altri termini, si determina la separazione del giudicato penale da quello civile, su cui non ha effetti il giudicato penale assolutorio. Il legislatore, dunque, non sembra perseguire il principio dell’unità della giurisdizione, al quale è sottesa la necessità di evitare conflitti di giudicati, e anzi prevede il caso che necessariamente all’unità della giurisdizione si debba derogare, accettando che nella stessa materia abbiano a pronunciarsi giudici diversi e che possano esservi giudicati divergenti in punto di responsabilità dell’imputato.

@2. Il contrasto della giurisprudenza sulla pretesa risarcitoria della parte civile non impugnante: a) Sez. un., 25 novembre 1998, Loparco

Con specifica attinenza ai rapporti tra pubblico ministero impugnante e parte civile acquiescente rispetto alla sentenza di proscioglimento emessa in primo grado, il percorso ricostruttivo incrocia, accanto al ricordato principio di accessorietà,9 quello di immanenza della costituzione di parte civile (art. 76, comma 2, c.p.p.)10 e quello dell’effetto parzialmente devolutivo delle impugnazioni penali (art. 597, comma 1, e 609, comma 1, c.p.p.).11 La soluzione della questio iuris, comunque,“discende non solo dal dato esegetico ma, soprattutto, dalla dimensione sistematica che si vuol attribuire all’azione civile inserita nel processo penale”,12 con la precisazione che l’intervento della parte civile trova la sua ratio giustificativa sia nella necessità di tutelare un legittimo interesse della persona offesa dal reato, sia nella unicità del fatto storico, valutabile sotto il duplice aspetto dell’illiceità penale e dell’illiceità civile. Si realizza così non solo un’esigenza di economia dei giudizi, ma viene anche evitato un possibile conflitto di pronunce.

Quanto agli approdi giurisprudenziali in materia, è opportuno prendere subito l’abbrivio dall’orientamento che, in tema di impugnazione, non riconosce alla parte civile costituita il diritto alle restituzioni o al risarcimento del danno se, assolto l’imputato nel giudizio di primo grado, vi sia stata condanna dello stesso su appello del solo pubblico ministero.13

Infatti, la persona offesa, una volta costituitasi parte civile, può liberamente decidere di insistere, nei gradi successivi del processo penale, nell’attivata azione a tutela dei propri interessi, nonostante l’assoluzione dell’imputato e il ritenuto accertamento (da parte del giudice del processo in una fase suscettibile di impugnazione) dell’insussistenza del fatto o della non commissione di esso da parte del chiamato in giudizio, ovvero di altra evenienza esonerante da responsabilità o implicante l’improcedibilità (e ciò quantunque il pubblico ministero abbia optato per l’accettazione della decisione); oppure scegliere di non coltivare l’azione stessa, anche quando il pubblico ministero promuova l’impugnazione nell’interesse dello Stato, con la conseguenza di far formare il giudicato in ordine al relativo rapporto, con effetti sostanziali processuali.14

Viene chiaramente valorizzata la piena autonomia della parte civile e del pubblico ministero: l’azione civile e l’azione penale, pur esercitate nello stesso processo, sono definite da capi diversi della sentenza, ciascuno capace di...

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