Immigrazione e condizione giuridica dello straniero

AutoreVincenzo Casamassima
Pagine141-168

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@1. Premessa

La tematica dell'immigrazione è ormai da molti anni al centro del dibattito politico italiano. A partire dall'inizio degli anni novanta i flussi migratori verso l'Italia, la cui crescita già negli anni settanta aveva per la prima volta fatto sì che il numero degli arrivi superasse quello delle partenze dal nostro paese, si sono intensificati in maniera molto rilevante, costringendo la società e la classe politica a fare i conti con un fenomeno che mai in precedenza aveva assunto i tratti di un fattore in grado di incidere strutturalmente sulla composizione della popolazione abitante entro i confini italiani (secondo la stima del Dossier Caritas/Migrantes del 2006, gli immigrati legalmente soggiornanti in Italia alla fine del 2005 sarebbero 3.035.000, pari al 5,2% della popolazione). È noto come lungo i decenni che vanno dalla conclusione ottocentesca del processo di unificazione nazionale fino ancora ad anni non molto lontani l'Italia sia stata terra d'emigrazione, in cui le correnti immigratorie ad assumere una rilevanza quantitativamente significativa si sono identificate con quelle di "rientro" dei cittadini che, concluso un periodo più o meno lungo di soggiorno all'estero per ragioni di lavoro, decidevano di fare ritorno nel proprio paese. I problemi di reinserimento incontrati dai cittadini ritornati in patria, normalmente riaccolti in una rete di legami sociali non recisa nella fase dell'assenza, dovevano certamente essere affrontati anche con strumenti normativi. Il possesso dello status civitatis da parte dei potenziali destinatari di forme di tutela giuridica comportava, però, che alle pubbliche autorità fosse normalmente rivolta una domanda di effettività delle garanzie, non di accesso alla titolarità delle situazioni giuridiche.

Allo stesso tempo, la normativa in materia di cittadinanza, riscritta dopo ottanta anni ad opera della l. 91/1992, privilegia, per l'acquisto dello status di cittadino, il principio c.d. dello ius sanguinis, cioè dell'acquisto della cittadinanza per nascita da padre o madre cittadini, rispetto a quello dello ius soli (acquisto per nascita nel territorio dello Stato). Per altro verso, detta una disciplina dell'acquisto della cittadinanza per "naturalizzazione" ispirata dal principio del favor nei confronti dei discendenti di cittadini italiani e caratterizzata, invece, dalla previsione di criteri molto restrittivi per la grande maggioranza degli altri stranieri, ai quali è richiesto, per la "concessione" della cittadinanza, l'aver risieduto legalmente nel territorio della Repubblica per almeno dieci anni. Possiamo qui solamente accennare alla recente presentazione (30 agosto 2006) alla Page 142

Camera dei deputati (C-1607) da parte del Ministro dell'interno del Governo attualmente in carica di un disegno di legge che mira, tra l'altro, a ridurre a cinque anni il periodo di residenza legale necessario per la concessione della cittadinanza, a dare maggiore rilevanza al principio dello ius soli, in relazione all'acquisto della cittadinanza per nascita e a facilitare l'acquisto della cittadinanza da parte di minori stranieri che siano figli di stranieri stabilmente insediati sul territorio italiano.

Anticipando notazioni che saranno sviluppate più avanti, si può dire che per molto tempo in Italia il fenomeno dell'immigrazione di stranieri entro i confini statali è stato considerato come la mera risultante di scelte individuali di singole persone di cui regolamentare la condizione giuridica per il periodo che avessero deciso di trascorrere sul territorio nazionale. In altri termini, da una parte, non si imponeva la necessità di mettere a punto articolate politiche dell'immigrazione finalizzate alla regolamentazione dei flussi in ingresso, in ragione della loro esiguità, dall'altra, le ridotte dimensioni della presenza straniera tendevano inevitabilmente a mantenere lontana dall'agenda politica degli organi legislativi e governativi la questione della attuazione dei principi che, in maniera diretta o indiretta, la Costituzione aveva introdotto in materia di condizione giuridica dello straniero. La debolezza della pressione esercitata dai fenomeni ha spiegato, dunque, in gran parte, pur senza giustificarla, la duratura inerzia del legislatore nel tradurre in regole i nuovi principi costituzionali.

Questi ultimi, a uno sguardo d'insieme, si presentano come il frutto della confluenza e della sintesi dei valori fondanti l'apertura internazionalistica (in antitesi alle chiusure nazionalistiche del passato) del sistema costituzionale delineato dalla Carta del 1948 con quelli sottostanti alla decisa affermazione del principio personalista, espressivo di un'istanza di radicale contestazione nei confronti di ogni genere di "sotto-valutazione" di un individuo in ragione del richiamo a qualsivoglia elemento diversificante, compreso senza dubbio quello costituito dal possesso o meno della cittadinanza italiana. Prima di proporre un breve quadro ricostruttivo delle disposizioni costituzionali concernenti, più o meno direttamente, la materia in esame e di soffermarsi sul percorso della loro attuazione nelle normative sub-costituzionali, sono indispensabili alcuni cenni di carattere generale circa la definizione giuridicamente rilevante dei concetti di "immigrazione" e di "straniero".

Per immigrazione deve intendersi il fenomeno, guardato dal punto di vista del paese di arrivo, dello spostamento di individui dal territorio di uno stato a quello di un altro stato (ma è bene ricordare che esistono anche le migrazioni "interne", di cui qui non ci si occupa), con la finalità di insediarsi nel secondo per un certo periodo. Partendo da questa nozione molto generale di immigrazione, bisogna poi subito rilevare, sul piano sociologico, come il tipo di percezione della suddetta da parte della società di insediamento influisca decisivamente sulla definizione di cosa è (considerato) immigrazione, o meglio di cosa è ritenuto riconducibile all'ambito dell'"immigrazione come problema". Tale valutazione è condizionata da vari fattori, tra cui, senz'altro fra i principali, le dimensioni quantitative del fenomeno e le caratteristiche soggettive degli immigrati, quali la loro provenienza geografica e culturale e le loro condizioni economiche (e, quindi, le ragioni del trasferimento). Si tratta di elementi che influiscono in maniera rilevantissima sulla definizione delle politiche dell'immigrazione e delle regole che vanno a costituire il diritto dell'immigrazione, espressione con la quale ci si riferisce, sul piano appunto giuridico, al complesso delle norme relative alle condizioni per l'ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato. Page 143

A loro volta, le regole che compongono il diritto dell'immigrazione contribuiscono a disegnare i contorni di quella che suole definirsi la "condizione giuridica dello straniero", per tale intendendosi la condizione di colui il quale, non essendo in possesso della cittadinanza dello stato preso a riferimento, è, perciò, assoggettato a un trattamento giuridico differente da quello spettante ai cittadini. Se si può essere d'accordo con chi nota come il potere di impedire o limitare l'ingresso nel proprio territorio dei non-cittadini possa considerarsi "coessenziale alla esistenza dello Stato" (G.U. Rescigno), si deve, d'altro canto, rilevare come, in un ordinamento retto, come quello italiano, da una costituzione rigida e garantita dalla previsione di un sistema di giustizia costituzionale, il succitato potere incontri nelle norme di livello costituzionale un limite invalicabile, in grado di vincolare l'attività degli organi politici con riferimento tanto alla regolamentazione dei flussi immigratori, quanto allo status conferibile agli stranieri presenti entro i confini statali.

A ciò si aggiunge, con riguardo all'Italia, la necessità di tener conto degli ulteriori vincoli che alla autonomia dello Stato derivano, oltre che dall'adesione a convenzioni internazionali di varia rilevanza, in particolare, dall'appartenenza all'Unione europea. L'applicazione del diritto comunitario, comportando una parificazione, sotto molti aspetti, della posizione dei cittadini comunitari a quella degli italiani, traccia una linea di demarcazione molto netta tra due categorie di stranieri, i comunitari e i c.d. extracomunitari, introducendo una distinzione non contemplata in Costituzione. Si tornerà, nei limiti imposti dalla natura di questo contributo, sulle questioni relative alla incidenza del diritto comunitario in materia di immigrazione e di condizione giuridica dello straniero, intesa come espressione riassuntiva del complesso delle situazioni giuridiche soggettive di vantaggio e di svantaggio di cui lo straniero stesso è titolare. È sufficiente, per il momento, rilevare che, parlando di stranieri nel corso dell'analisi delle normative sub-costituzionali, si farà riferimento nel prosieguo, in assenza di diversa precisazione, alla categoria dei cittadini di stati non appartenenti all'UE, al trattamento dei quali è, sotto la maggior parte dei profili, assimilato dalla legislazione vigente quello degli apolidi, cioè di coloro che l'applicazione dei criteri di acquisto della cittadinanza pone nella sfortunata condizione di non essere cittadini di alcuno stato.

@2. Le norme costituzionali in materia di immigrazione e condizione giuridica dello straniero

La Costituzione repubblicana, nel testo uscito dai lavori dell'Assemblea costituente, non dedicava all'immigrazione alcuna specifica previsione, mentre conteneva (e contiene), significativamente all'interno del Titolo III della Parte prima dedicato ai "Rapporti economici", una disposizione, l'art. 35, c. 4, secondo cui "[la Repubblica] riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse generale, e tutela il lavoro italiano all'estero". Di tale disposizione possono fornirsi due interpretazioni.

La prima è quella, sostenuta dalla dottrina maggioritaria, più...

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