Il Mobbing come fattispecie penale
Autore | Ignazio Augusto Santangelo |
Pagine | 609-618 |
609
Rivista penale 7-8/2015
Dottrina
Il MobbIng
coMe fattIspecIe penale
di Ignazio Augusto Santangelo
1. La fenomenologia indicata come mobbing – una
locuzione originata da “to mob”, termine ritratto dall’eto-
logia e dall’espressione latina “mobile vulgus” – assume,
trasposta in ambito laburista (1), il significato di pratica
persecutoria attuata dal datore di lavoro o dai colleghi nei
confronti del dipendente (2). In carenza d’apposita defini-
zione legislativa, offre una fattispecie attraverso il collau-
do giurisprudenziale dagli effetti preminentemente civili-
stici quanto agli interessi tutelati, alle conseguenze che vi
rilevano ed ai rimedi esperiti (3). Sono insiti – in senso
soggettivo ed identificando la polare duplicità dei contri-
denti – il mobber ed il mobbizzato, laddove si distinguono
– sul piano oggettivo e modulare – il mobbing verticale
(c.d. bossing) da quello orizzontale, pur se le partizioni
tipologiche finiscano con l’intrecciarsi nell’accomunata
condotta in cui è consentito intravedere l’ispiratore nel
soggetto di vertice ed i concreti esecutori nei colleghi; nel
primo caso (che potrà definirsi come mobbing strategico
o pianificato), l’attività “contra jus” è posta in essere dal
datore di lavoro (ovvero da un soggetto che sia subordi-
nato nell’organizzazione aziendale), laddove, nel secondo,
la violenza psicologica proviene dagli stessi colleghi della
vittima (a guisa che il mobbing sarà individuale o collet-
tivo), e tutti con “animus nocendi” (4). Precisa sugli ele-
menti figurali la persistenza nell’impedire l’espletamento
d’un attivo ruolo aziendale – ed, al riguardo, occorre la
compresenza sia della piena volontà dell’illecito, sia la rei-
ficazione nel lungo periodo degli atti lesivi – mentre l’ul-
teriore componente promana dal danno stesso, intravisto
o come lesione di beni giuridici – che viene a manifestarsi
sul piano fisico e professionale, nonché su quello morale
e sessuale – determinando una “turbatio animi”, effetto
finalistico della condotta (5).
Nei moduli tipologici va sottolineata la non implicita
scopertura di tutela a preciso motivo che non rileva in
quanto tale, bensì nella misura in cui i comportamenti –
“singulatim” posti in essere – possano ricondursi nell’alveo
normativo (6). Il fenomeno può realizzarsi, infatti, at-
traverso condotte dagli effetti devastanti, sicché occorre
individuare quali siano quelle rilevanti sul piano giuridico
e conducenti all’affermazione d’una responsabilità civile
o penale dell’agente, nonché al verificare se questa possa
affermarsi anche in assenza di una specifica disciplina e,
nel caso affermativo, in quale modo (7).
La problematica si complica qualora il mobbing si ma-
nifesti “ab interno” attraverso comportamenti atipici e non
collegabili “ex se” ad alcuna specifica regolamentazione.
La materiale ipotesi (quali gli intensificati dissidi con
colleghi, l’esclusione dalle attività sociali e l’ilarità per gli
aspetti personali) che, pur indicando i caratteri della stra-
tegia persecutoria, offrono una casistica in cui la dottrina
propende ad escludere la rilevanza giuridica, osservando
che non trova cittadinanza ordinamentale il principio per
cui sussista un dovere di socializzazione tra soggetti slegati
da vincoli di natura contrattuale (8); trattasi, infatti, di
condotte che, seppur possano dar luogo a riprovazione,
sono irrilevanti “in jure” e, del resto, considerandone il ca-
rattere neutro, non è agevole discernervi gli atti finalizzati
al pregiudizio del lavoratore rispetto a quelli ricomponibili
nella normale gestione relazionale. Ma, oltre a quelli che
rivestono marginaria incidenza (e ne resta ardua la ricon-
duzione ordinamentale in profili di tutela), l’ermeneutica
ha sviluppato filoni esegetici volti a ricomporre le condotte
di mobbing nel solco di una protezione generale sotto le
ipotesi di responsabilità aquiliana od extracontrattuale a
salvaguardia psico-fisica del lavoratore e della sua profes-
sionalità (9). S’offre un’iniziale previsione con l’art. 2043
c.c. che introduce, racchiuso nell’espressione del “neminem
laedere”, un fondante principio di convivenza civile; tratto
da una più generale enunciazione, esso può utilizzarsi per
la configurabilità risarcimentale del danno da censurabili
comportamenti, anche se in dottrina ed in giurisprudenza
si propende nell’incanalare la tutela dal fenomeno in altro
ambito, segnatamente nell’art. 2087 c.c. oppure nell’utiliz-
zare il riferimento a supporto e coordinazione sinanco con
quella della salute sub art. 32 Cost.. L’impiego normativo si
rivela ausiliante – oltre che nel c.d. mobbing orizzontale, id
est, in quello ove manchi il legame di subordinazione – al
fine di individuare le responsabilità dell’agente, sicché l’ap-
plicazione di tali disposizioni può invocarsi per ricomporre
la responsabilità in capo al datore di lavoro (10). Nondime-
no, l’applicazione ad ipotesi di mobbing resta problematica
sia sotto il profilo strettamente probatorio, sia per l’indi-
viduazione dell’antigiuridicità delle condotte del mobber,
sia per quanto attenga al nesso eziologico tra le stesse e le
patologie psico-fisiche, motivando gli interpreti alla ricerca
di strumenti di tutela più efficaci e con minori difficoltà.
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