Il dolo nel diritto penale

AutoreMaria Grazia Maglio/Fernando Giannelli
Pagine693-705

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@1. Il dolo: rapporti con la conoscenza della legge penale.

Dolo

(inglese dolus, francese dol, tedesco Vorsatz, spagnolo engaño, o dolo) deriva, immediatamente, dal dolus dei Romani, che proveniva, a propria volta, da dolos o dolear (esca) dei Greci (doleròs = astuto; dolios = insidioso; doloo = defraudo; doloma = inganno) (PIANIGIANI).

Secondo la ben nota definizione di Marco Antistio Labeone, il dolus era omnis calliditas, fallacia, machinatio, ad circumveniendum, fallendum, decipiendum alterum adhibita. Ma si trattava, benvero, di tematica attinente al jus poenale, non al jus criminale, il diritto penale odierno (ARANGIO RUIZ, BONFANTE, GUARINO).

Sotto il vigore dei codici preunitari, ed, anche, del codice Zanardelli (GATTI), il dolo era certamente confuso con la conoscenza dell'illiceità del fatto di reato. Eppure, l'art. 44 del codice Zanardelli era identico all'art. 5 del nostro, vigente, codice.

Il CARMIGNANI definì il dolo come «la volontà di violare la legge penale», e così pure affermò il FILANGIERI; il PUCCIONI, come l'intenzione di violare liberamente la legge; il PESSINA, come la volizione di un maleficio; il CRIVELLARI - un po' sibillinamente - come la intenzione di commettere un atto vietato dalla legge; il GIULIANI, come la coscienza che ebbe il delinquente, nel commettere l'azione vietata, di violare liberamente la legge.

Il FLORIAN richiedeva, quale componente del dolo, la conoscenza del carattere di antigiuridicità, cioè di punibilità, che l'azione propria ed il risultato propostosi rivestono.

Ma già in quei tempi non mancavano dispute, tese a sganciare, da parte di alcuni, il dolo dalla coscienza dell'antigiuridicità.

Ad esempio, mentre il PAGNONCELLI insegnava che i dotti in giurisprudenza, chiosando il pensiero di Platone, sostenevano essere - il dolo - l'intenzione di mal fare, il GIGLI, in senso critico, affermava che il dolo è (solo) il concorso diretto della volontà e dell'intelletto nell'azione che si commette. E già l'IMPALLOMENI, sotto il vigore del cessato codice, disancorava il dolo dalla coscienza della violazione della legge penale.

Il nostro legislatore, pur riproducendo, all'art. 5, il testo dell'art. 44 del codice Zanardelli, ha, comunque, posto in essere un sistema ben compiuto, non permettendo più confusioni tra conoscenza della legge penale (art. 5), dolo, o, in genere, elemento psicologico del reato (artt. 42 e 43) e imputabilità (artt. 85 ss.).

Non di meno, la dottrina mostra molta resistenza a separare il dolo dalla materia della conoscenza della legge penale.

Ed, infatti, il DE MARSICO afferma che v'è necessità, perché sia integrato il dolo, della conoscenza del carattere antisociale della azione (lato sensu intesa); l'ANTOLISEI ed il PECORARO ALBANI affermano essere, l'antigiuridicità, necessariamente da ricondurre all'oggetto del dolo nei casi di antigiuridicità espressa (es.: art. 633 c.p., con riguardo al carattere criminoso designato dall'avverbio «arbitrariamente»; si pensi, ancora, all'art. 348 c.p., con riguardo all'esercizio della professione, che deve avvenire «abusivamente»).

Ma s'annida, serpesca, in siffatte affermazioni, la violazione dell'art. 5 c.p., poiché le valutazioni dell'agente non devono giammai investire l'aspetto precettivo della norma incriminatrice.

Quanto, poi, agli elementi di c.d. antigiuridicità espressa, si tratta nient'altro che di elementi del fatto, per cui, solo a questi patti, si richiede che siano illuminati dal dolo (PANNAIN, NUVOLONE, BRICOLA).

Il BRICOLA, il NUVOLONE e il CADOPPI, autore di una poderosa monografia in tema di reato omissivo proprio, opinano che, nei reati omissivi «puri», senza pregnanza naturalistica (qual è, ad esempio, quello di cui all'art. 217, secondo comma, l. fall.), poiché tutto si risolve nell'obbligo, immediatamente posto dal legislatore penale, allora, il dolo non può che investire, anche, la stessa fonte dell'obbligo, cioè, appunto, la legge penale: ciò non avverrebbe, invece, nei reati omissivi propri a contenuto naturalisticamente pregnante (es.: art. 593 c.p.). Qui, anche se l'obbligo di agire deriva «una via» dalla legge penale, l'individuo omittente potrebbe basare le proprie valutazioni su degli elementi di fatto, per cui il dolo non investirebbe la legge penale.

Tali affermazioni ci appaiono eccessivamente naturalistiche: aderire a tali impostazioni, ad ogni buon conto, comporterebbe la conseguenza che, quanto ai reati del primo tipo (es.: art. 217, secondo comma, l. fall.), di contro al disposto dell'art. 5 c.p., si potrebbe invocare l'errore su legge penale (così, de jure condito, DONINI; in tema di omessa denuncia di reato: BRUNELLI).

La tesi non appare, comunque, da condividere: si faccia il caso dell'imprenditore obbligato alla regolare tenuta delle scritture contabili: egli potrà dimostrare, al più, di non essere stato a conoscenza di elementi di fatto, magari ex art. 47, terzo comma, c.p., che gli avrebbero permesso di conoscere la propria qualifica di imprenditore. Ma, in mancanza di tale prova, quella qualifica basta a far applicare la legge penale, che non rileva se sia conosciuta o no (giurisprudenza consolidata; contra, in dottrina, ANTOLISEI).

Anche per altro verso si tende a far rientrare la conoscenza della legge penale nell'ambito del dolo: premesso che, secondo noi, non esistono reati senza evento, e che, per conseguenza, in tutti i reati, il dolo deve investire la componente fattuale costituita dall'evento, va rilevato che autorevole dottrina (GALLO M., BRICOLA, MARINI, FIORE) si èPage 694 posta il problema se oggetto del dolo possa essere anche l'offesa al bene tutelato; se, in pratica, la lesività della propria condotta debba essere conosciuta dall'agente.

Il PAGLIARO ed il PECORARO ALBANI ritengono che ammettere l'esigenza che il dolo investa l'offesa al bene giuridico, con possibilità, quindi, di errore al riguardo, significhi eludere la categorica «preclusione» di cui all'art. 5 c.p. (PALAZZO, FIANDACA, MUSCO, VASSALLI).

Ora, è vero che l'art. 43, primo comma, alinea 1, c.p. parla di evento che deve essere preveduto e voluto. E, allora, quid juris?

Ebbene, il dolo deve essere costruito come la proiezione di una condotta cosciente e volontaria (art. 42, primo comma, c.p.) verso un evento. Ma un ordinamento che possa esser degno di tale nome, e, quindi, in possesso di un minimo di affidabilità, e serietà, non può che considerare l'evento come il momento finale, decisivo, della stessa incriminazione al livello «natale» della legislazione; se è così, e non può non esserlo, deve dirsi che ogni evento deve essere riguardato in duplice prospettiva: sotto un profilo fattuale (non necessariamente naturalistico, si badi), cioè come il risultato cui la condotta tende, e sotto un profilo valutativo, politico, di lesività di un bene giuridico, profilo assolutamente «curiale», assolutamente sottratto ad ogni valutazione da parte di colui che pone in essere gli estremi di un reato (BRICOLA). Anche sotto questo riguardo, è, allora, da escludere che si possa mai dover conoscere la legge penale (GALLO M.) (contra: MARINI, FIORE).

Non si potrà mai ipotizzare la possibilità di una valutazione privata avente ad oggetto una valutazione pubblica, a pena di dover infliggere un colpo rilevante alla nostra già colpita Repubblica: si consideri che, in casi che il giudice potrà ritenere meritevoli di assoluzione «perché il fatto non sussiste», per mancanza di evento (NUVOLONE), le Forze dell'Ordine, e ogni persona a tanto obbligata, dovranno, a pena di responsabilità ex artt. 361 ss. c.p., denunciare all'Autorità giudiziaria, o ad altra che a quella abbia obbligo di riferire, quanto appare in mundo riconducibile a quell'ipotesi criminosa, e dovrà essere il giudice, solo il giudice, a valutare se un comportamento abbia cagionato un evento. Ciò posto, non si vede come individuare, nell'ambito dell'oggetto del dolo del contravventore (lato sensu) alla legge penale, la parte valutativa inerente all'evento.

@2. Dolo e condotta criminosa.

Il dolo deve investire tutta la condotta, e deve investire una condotta che sia omogenea sotto il profilo strutturale (PECORARO ALBANI): se un'azione si tramuta in una successiva omissione, ad esempio, nel caso che solo successivamente ad una condotta positiva di lesioni personali ci si accorga di aver leso una persona nei cui confronti si sia titolari di una posizione di garanzia, e si ometta il soccorso, si risponderà di omicidio doloso, ma non, tecnicamente, per un dolo successivo, che presupporrebbe una pregressa omissione colposa, o giustificata ex art. 45 c.p., bensì per un dolo autonomo, inerente alla successiva omissione (SALAMA).

Vi sarebbe, invece, dolo successivo se, iniziata una condotta di omessa collocazione colposa di mezzi destinati al salvataggio od al soccorso contro disastri od infortuni sul lavoro (art. 451 c.p.), successivamente come si vede, è identica (omissione-omissione).

Si noti che, in casi siffatti, non s'ha concorso materiale di reati, ma unica condotta, con mutamenti psicologici ad essa intrinseci.

Di tanto non potrebbe dolersi il finalista, poiché l'unicità della azione può cadere si omettesse per dolo (art. 437 c.p.). La struttura della condotta, qualora compaia pluralità di soggetti passivi, nei confronti dei quali la condotta s'atteggi diversamente sotto il profilo dell'elemento spirituale (artt. 82, secondo comma, 83 c.p.) o per un errore «interruttivo» sul fatto, o per altro accidente causale, ma nei casi di cui qui ci stiamo occupando, la vicenda «culturale» dà solo atto di un'evoluzione verso un unico evento dei moti psichici.

Tanto precisato, dolo successivo s'ha di certo nel caso, meno problematico, di una condotta positiva di incendio colposo, alla quale succeda una residua parte della condotta, caratterizzata dal dolo, anch'essa positiva.

Non s'avrebbe, invece, in difetto di una posizione di garanzia (che, secondo noi, non può derivare dalla violazione della legge penale, altrimenti estendendosi a...

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