Il delitto tentato

AutoreMassimiliano di Pirro
Pagine349-372

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@1 Premessa: l’iter criminis

Ogni reato "viene al mondo" attraverso determinate fasi, che costituiscono il cd. iter criminis

In particolare, l’iter criminis è composto (nella sua massima estensione) dalle seguenti fasi successive (Mantovani):

  1. l’ideazione del reato, ossia l’elaborazione mentale con la quale il soggetto dà vita, nella propria psiche, al disegno criminoso. Tale fase è tipica dei reati dolosi, caratterizzati dall’intenzione di commetterli (vedi Cap. 25), mentre per i reati colposi può aversi ideazione della condotta con previsione dell’evento, ma non ideazione dell’intero crimine;

  2. la preparazione del reato, ossia gli atti preparatori alla realizzazione del reato: tale fase può aversi nel dolo di proposito e nella premeditazione;

  3. l’esecuzione del reato, ossia il momento in cui la condotta criminosa si manifesta nel mondo esterno, attraverso la realizzazione di un fatto corrispondente a quello punito dalla norma penale;

  4. il perfezionamento del reato, che indica quello stadio dell’iter criminoso in cui il fatto concreto coincide con il fatto previsto dalla norma penale incriminatrice, essendosi verificati tutti i requisiti richiesti dalla fattispecie legale (condotta, evento, offesa, nesso di causalità ed elemento soggettivo);

  5. la consumazione del reato, ossia il momento in cui il reato viene a cessare, raggiungendo il culmine della sua portata offensiva.

    Per meglio comprendere la distinzione tra perfezionamento e consumazione del reato, si pensi ad esempio:

    - al reato di lesioni personali provocate con più colpi di coltello, nel quale il reato è perfetto dopo il primo colpo ma si consuma solo con l’ultimo;

    - ai reati a evento frazionato, come l’estorsione di tangenti, che in virtù della minaccia iniziale vengono versate periodicamente: il reato si perfeziona con il pagamento della prima tangente e si consuma con il pagamento dell’ultima.

    Ovviamente perfezione e consumazione possono coincidere, come nel caso dell’omicidio realizzato con un unico colpo di pistola.

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    @2 Nozione

    Non sempre la fase dell’esecuzione del reato sfocia nella consumazione dello stesso. Può accadere, infatti, che la condotta del soggetto non si realizzi per intero o che l’evento lesivo non si verifichi per cause indipendenti dalla volontà del soggetto. In tal caso si parla di delitto tentato, previsto dall’art. 56 c.p., secondo cui "chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica" (1° comma).

    La punibilità del tentativo risiede nel fatto che, pur non avendo portato a termine il reato programmato, tuttavia il soggetto ha manifestato, con gli atti parzialmente realizzati, la sua intenzione criminosa, mettendo in pericolo il bene penalmente protetto (Mantovani).

    Da quanto detto risulta evidente che il tentativo è qualcosa di meno del reato consumato, poiché mentre quest’ultimo comporta la lesione effettiva del bene o la sua messa in pericolo, il tentativo può soltanto realizzare la messa in pericolo del bene penalmente tutelato; e ciò spiega perché il delitto tentato sia punito meno severamente del delitto consumato.

    Benché le varie ipotesi di delitto tentato richiamino sempre il nomen iuris delle singole figure di reato (tentato omicidio, tentata rapina, tentato furto etc.), il delitto tentato è un delitto autonomo, che presenta tutti gli elementi necessari per la configurazione di un reato (fatto tipico, antigiuridicità, colpevolezza).

    Il delitto tentato, in particolare, è il risultato della combinazione di due norme:

    - la principale, ossia la norma incriminatrice che prevede la fattispecie di reato;

    - l’art 56 c.p., che, combinandosi con la singola norma incriminatrice (ad esempio, con l’art. 624 c.p. sul furto) dà vita a un’altra figura di reato (ad esempio, il delitto tentato di furto) diretta a estendere la punibilità a ipotesi che la norma principale non sanziona.

    In altri termini, può vedersi la norma di cui all’art. 56 c.p. inserita e ripetuta in ogni reato di parte speciale, laddove alla punibilità della fattispecie perfezionata si affianca la punibilità della fattispecie tentata. Ad esempio, l’art. 575 c.p., che punisce chiunque cagiona la morte di un uomo, è come se fosse scritto nei seguenti termini: chiunque cagiona o tenta di cagionare la morte di un uomo (e ciò vale per ogni altro reato).

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    Quanto sopra evidenziato è confermato anche dalla giurisprudenza, secondo cui "il delitto tentato costituisce una fattispecie criminosa a sé stante; e, cioè, una figura autonoma di reato, risultante dalla combinazione di una norma principale (la norma incriminatrice speciale) e di una norma secondaria (quella contenuta nell’art. 56 c.p.) che ha efficacia estensiva dell’ordinamento penale" (Cass., I, 18-5-1985).

    Per quanto attiene al fondamento della punibilità del tentativo, esso risiede, secondo la dottrina prevalente (FiandacaMusco, Petrocelli), nell’esigenza di prevenire e sanzionare l’esposizione al pericolo dei beni tutelati dall’ordinamento (teoria oggettiva). Tale teoria, quindi, rinviene la punibilità nell’esposizione a pericolo del bene protetto.

    Altri autori (Malinverni) affermano che il tentativo è punito in quanto è espressione della volontà criminosa del soggetto (teoria soggettiva).

    In un’ottica intermedia si pone la teoria mista, che individua il fondamento della punibilità del delitto tentato sia nella manifestazione della volontà di delinquere, sia nell’effettiva esposizione a pericolo del bene tutelato (Mantovani, Pagliaro).

    @3 L’inizio dell’attività punibile

    Inquadrato l’argomento nei suoi aspetti generali, occorre adesso chiedersi qual è il momento a partire dal quale la condotta del soggetto può considerarsi punibile a titolo di tentativo.

    La dottrina è stata da sempre impegnata sulla questione, poiché, da un lato, occorre evitare di sanzionare meri propositi delittuosi o comportamenti innocui; dall’altro, occorre evitare di posticipare eccessivamente l’inizio dell’attività punibile, vanificando così le finalità preventive perseguite dal legislatore con l’art. 56 c.p.

    Il codice Zanardelli del 1889 segnava l’inizio dell’attività punibile nel cominciamento dell’esecuzione, distinguendo gli atti preparatori da quelli esecutivi, e ritenendo i primi del tutto irrilevanti poiché non ancora aggressivi del bene tutelato. Questa impostazione, se apparentemente impeccabile dal punto di vista teorico, denotava il suo punto debole nell’applicazione pratica, stante la difficoltà, in alcuni casi, di separare gli atti preparatori da quelli esecutivi.

    Si pensi, ad esempio, a Tizio il quale, per uccidere Caio, si apposta dietro una finestra, posiziona l’arma in direzione della vittima, prende la mira e preme il grilletto: ai fini del tentativo, quali sono, secondo questa teoria, gli atti esecutivi e quelli preparatori?

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    Successivamente, la dottrina ha elaborato ulteriori criteri per distinguere gli atti preparatori dagli atti esecutivi:

    - il criterio dell’univocità, coniato da Francesco Carrara, ritiene esecutivi gli atti idonei a ledere il bene protetto dalla norma penale e indirizzati inequivocabilmente a ledere il bene stesso;

    - il criterio dell’aggressione della sfera del soggetto passivo: ancora Carrara, in una fase successiva dei suoi studi, ha qualificato gli atti preparatori come quegli atti che rimangono nella sfera del soggetto attivo senza incidere sulla sfera del soggetto passivo. Obiezioni al criterio vengono mosse da chi ne rileva l’inapplicabilità ai reati a soggetto passivo indeterminato (si pensi al reato di evasione);

    - il criterio dell’azione tipica: da una più matura evoluzione della scienza penalistica sono stati qualificati come esecutivi quegli atti che danno inizio all’attività criminosa prevista dalla fattispecie di reato. Tuttavia, questo criterio restringe eccessivamente l’ambito di punibilità del tentativo; inoltre, con riferimento ai reati a condotta libera (es.: omicidio), non è agevole individuare gli atti con cui è iniziato il delitto. Si è allora modificata la tesi, attirando nell’ambito della punibilità anche i cd. atti pretipici, ossia quegli atti subito antecedenti a quelli previsti dalla norma penale come necessari per la consumazione del reato. Anche in questo caso, però, si è osservato che la distinzione tra atti preparatori e atti pretipici non è affatto immediata.

    Il persistere delle difficoltà nel valutare il momento iniziale della punibilità ha indotto il legislatore a prevedere, nel codice penale vigente, la figura del delitto tentato abbandonando il tradizionale criterio del "cominciamento dell’esecuzione". L’art. 56 c.p., infatti, punisce "chiunque compia atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica" (vedi par. 5).

    Attualmente, pertanto, il codice non fa distinzione fra atti preparatori (cioè, anteriori all’inizio dell’esecuzione) e atti esecutivi, sicché anche un atto meramente preparatorio può costituire materia di tentativo punibile, sempre che l’atto stesso risulti idoneo e diretto in modo non equivoco alla commissione di un delitto (Cass., II, 20-4-1985).

    @4 L’elemento soggettivo

    Il delitto tentato, essendo un reato autonomo, è stato definito precedentemente come un reato perfetto, ossia dotato di tutti gli elementi richiesti per la sua configurazione (fatto tipico, antigiuridicità, colpevolezza).

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    Ne consegue che occorre individuare l’elemento soggettivo e l’elemento oggettivo di tale reato.

    L’elemento soggettivo del delitto tentato può essere soltanto il dolo diretto (Cass., I, 27-3-1991): ciò emerge sia dal fatto che la condotta, nel tentativo, deve essere univocamente diretta alla consumazione del reato, sia dall’art. 42, 2° comma, c.p., che prevede la punibilità dei reati a titolo di colpa nei soli casi espressamente previsti dalla legge, mentre nessuna norma prevede il delitto tentato colposo.

    Resta aperto...

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