Il bioterrorismo nel diritto penale

AutoreCarlo Maria Grillo
Pagine685-690

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  1. Un fenomeno attuale, anzi antichissimo. - Spesso accade che i neologismi non abbiano un contorno ben definito, e quindi pacifico. Ciò vale anche per il fortunato termine «bioterrorismo», col quale alcuni indicano il terrorismo che utilizza specificamente «agenti biologici», altri - secondo un'accezione più ampia - il terrorismo che ricorre in genere ad armi non convenzionali, e cioè «nucleari, biologiche, chimiche»: la sciagurata e famigerata triade NBC.

    In considerazione del fatto che le armi nucleari, al contrario delle altre, non risultano essere state finora impiegate con finalità terroristiche, in questo scritto, al termine «bioterrorismo» assegneremo una portata intermedia, riferendolo a fenomeni eversivi realizzati attraverso agenti chimici e biologici, con maggiore attenzione a questi ultimi.

    Così inteso, il bioterrorismo non è certo un fenomeno nuovo.

    In epoca recente, uno degli episodi più eclatanti è stato quello attribuito alla setta religiosa Aum Shinrikyo («Suprema Verità»), la quale, dopo ripetute diffusioni di antrace e botulino nella città di Tokyo, mise a segno l'attentato del 1995, che causò la morte di 12 persone e l'intossicazione di altre diverse migliaia, mediante immissione, nella metropolitana giapponese, di un gas nervino (sarin).

    Una decina di anni prima, un'altra setta religiosa (Rajneeshee), nell'Oregon (USA), aveva effettuato una contaminazione alimentare con salmonella typhi, che finì col coinvolgere oltre settecento persone.

    Nel 1997, un microbiologo (L. W. Harris), aderente ad un gruppo estremista («Nazione Ariana»), fu arrestato e condannato negli USA per essersi fatto recapitare - per posta - tre fiale contennti batteri della peste bubbonica.

    Fonti attendibili dichiararono, dopo la tragedia delle Twin Towers, che agenti chimici e virali letali potevano essere illegalmente acquistati - fino a poco tempo prima - addirittura via Internet.

    Successivamente a quell'indimenticabile autunno, a Boca Raton (Florida), tre dipendenti di una casa editrice sono rimasti contaminati dal batterio dell'antrace, trasmesso con una lettera; appena dopo, sempre negli Stati Uniti (Washington, New Jersey e New York), sono state contagiate con lettere all'antrace altre dieci persone. In totale 13 infettati, 5 morti e migliaia le persone esposte alle spore del batterio spedito per posta, che recenti indagini avrebbero identificato come prodotto a Fort Detrick, il laboratorio governativo del Maryland.

    Ovviamente si preferisce un'arma ad un'altra per motivi, oltre che di efficienza, anche di costi, a cui pure le organizzazioni criminali sono molto sensibili. È stato calcolato, infatti, a proposito dei c.d. «strumenti di distruzione di massa» (NBC), che colpire un chilometro quadrato di territorio costerebbe 800 dollari con armi nucleari, 600 con agenti chimici, ma solo 1 dollaro con agenti biologici (2.000 dollari invece con armi convenzionali). Inoltre la illecita produzione di essi passa più facilmente inosservata, potendosi effettuare in un comune laboratorio privato di ricerca, ed il trasporto è certamente più agevole ed economico; perciò le armi biologiche sono considerate «l'atomica dei poveri».

    A differenza delle armi chimiche, che fanno la loro comparsa nel XIX secolo, con lo sviluppo della chimica industriale, e di quelle radiologiche e nucleari, frutto dei progressi della fisica nel XX secolo, l'impiego delle armi biologiche è molto remoto.

    L'idea di colpire un numero indefinito di persone, propagando malattie ed infezioni, si perde infatti nella notte dei tempi: gli antichi romani infettavano i pozzi dei nemici con carogne di animali; un trattato sanscrito, risalente all'inizio dell'era cristiana, vietava di impiegare armi avvelenate; i tartari nel 1347 espugnarono la città di Kaffa (ora Feodosija, in Crimea), colonia genovese, catapultando - oltre le mura della fortezza - cadaveri di appestati, che provocarono un'epidemia, con conseguente decimazione e fuga degli avversari superstiti; furono questi poi, probabilmente, a portarla in Europa, ove nel medio evo perirono di peste circa 25 milioni di persone. Più recentemente, durante la «guerra dei Sette anni» (1756-1763) tra francesci ed inglesi per la colonizzazione dell'America del Nord, questi ultimi «regalarono» ai pellerossa, simpatizzanti dei francesi, delle coperte usate da vaiolosi, con intuibili letali conseguenze. Quasi un secolo dopo, sempre gli inglesi, impegnati nella colonizzazione della Nuova Zelanda, fiaccarono la resistenza dei robusti Maori mettendo a loro disposizione prostitute affette da sifilide.

    L'epoca della moderna guerra biologica, basata cioè su veri e propri organici programmi di sviluppo, inizia, però, solo nel XX secolo.

    Appena finito il primo conflitto mondiale, il Giappone creò all'uopo una sezione speciale dell'esercito, la triestemente nota «Unità 731», guidata dal famigerato Shiro Ishii, poi processato per crimini contro l'umanità, grazie alla quale, dopo anni di sperimentazioni in Manciuria, già all'inizio della seconda guerra mondiale la potenza nipponica, prima fra tutte, fu in grado di spargere sulla Cina - con gli aerei - agenti infettivi della peste bubbonica, del colera e della leptospirosi.

    Negli anni '40 anche la Gran Bretagna avviò il programma di ricerca batteriologica, privilegiando quella sul bacillus anthracis, che venne sperimentato nel 1942 sull'isola di Gruinard, al largo (ma non abbastanza) delle coste scozzesi. Le conseguenze furono però tragiche, tanto che gli esperimenti vennero sospesi; ma oramai era troppo tardi: l'isola (acqua, aria, suolo e sottosuolo) era completamente infestata dalle spore, per cui è rimasta contaminata ed ufficialmente inaccessibile fino al 1988. Anche in Scozia nel 1943 si diffuse una gravissima epidemia del bestiame.

    Nel 1942, sull'onda delle ricerche britanniche e giapponesi, iniziarono a percorrere segretamente questa strada anche gli Usa, pur formalmente condannandola (Roosevelt). Secondo la Cina e l'Urss, a sua volta impegnata in programmi del genere, gli statunitensi utilizzarono armi batteriologiche in Corea nel 1956, ma l'accusa - come del resto quella mossa all'Unità 731 giapponese - non è mai stata inconfutabilmente provata, né mai ammessa. Accuse ancor meno dimostrate addebitano agli Usa anche la diffusione, deliberata o accidentale, del virus Ebola e dell'HIV.

    Sta di fatto che, negli anni cinquanta, l'Usa e l'Urss disponevano sicuramente di numerosi arsenali biologici e chimici, rifornendo alleati ed amici; si sospetta che l'ultima epidemia di carbonchio, registrata nella Zimbawe alla finePage 686 degli anni '70, fu provocata da spore liberate dall'esercito bianco rhodesiano, che combatteva contro la guerriglia nera.

    In definitiva, la sperimentazione, nonostante i divieti della comunità internazionale, non è stata mai seriamente interrotta, ma anzi si è andata estendendo a Paesi meno rappresentativi in campo mondiale, e quindi teoricamente meno responsabili. La situazione non è ancora cambiata, anche se la si camuffa con l'esigenza di dotarsi di strumenti di difesa da eventuali inconsulte aggressioni batteriologiche.

  2. Tra il dire e il fare... - Eppure la comunità internazionale, come si accennava, non è rimasta inerte, facendosi carico del problema, ma con misure rivelatesi purtroppo inadeguate sotto il profilo concreto.

    Il primo vero accordo di una certa rilevanza a livello globale è rappresentato, com'è noto, dal Protocollo di Ginevra del 17 giugno 1925, firmato dall'Italia e da altri 40 Stati sulla spinta dell'opinione pubblica colpita dall'orrore della «guerra chimica» appena conclusa, come venne definito il primo conflitto mondiale, in cui erano stati utilizzati circa 125.000 aggressivi chimici, che causarono la morte o la malattia/ferimento di 1.300.000 persone. Tutto ebbe inizio il 22 aprile 1915, quando l'esercizio tedesco, durante un attacco ad Ypern, fece uso di gas di cloro, provocando la morte di 5.000 uomini ed il ferimento di altri 10.000. In effetti c'era stato un precedente accordo, sottoscritto all'Aja nel 1899, sul divieto dell'uso di gas asfissianti, ma era rimasto del tutto inosservato.

    Il Protocollo del 1925 vietava l'impiego in guerra di armi chimiche (con estensione alle batteriologiche), come mezzo di aggressione, consentendone però l'utilizzazione in situazione di ritorsione, e dunque permettendone implicitamente la produzione, l'acquisizione e lo stoccaggio; molti Paesi si dotarono, infatti, di fornitissimi arsenali, in vista di... eventuali rappresaglie.

    Questo accordo, non in grado di evitare in concreto l'impiego di armi chimiche (e biologiche), è rimasto solo una nobile dichiarazione di intenti, che però ha lasciato le cose sostanzialmente immutate per oltre mezzo secolo. Anche dopo il secondo conflitto mondiale, infatti, continuarono ad essere impiegati aggressivi chimici: Agent Orange dagli Usa in Vietnam; acido cianidrico iprite e gas nervini dall'Egitto contro lo Yemen; sostanze varie dal Vietnam, in Cambogia e nel Laos, e dall'Unione Sovietica in Afganistan; oprite e tabun dall'Iraq contro l'Iran...

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