I Riflessi Processualpenalistici Del Nuovo Abuso Del Diritto

AutoreAdriano Spinelli
Pagine217-237
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dott
Arch. nuova proc. pen. 3/2016
DOTTRINA
I RIFLESSI
PROCESSUALPENALISTICI
DEL NUOVO ABUSO
DEL DIRITTO (*)
di Adriano Spinelli
SOMMARIO
1. Premessa. 2. L’elusione tributaria tra abuso del diritto e
dichiarazione infedele: prof‌ili def‌initori; 2-1) (Segue): prof‌i-
li tributaristici e civilistici. 2-2) (Segue): prof‌ili penalistici.
3. L’art. 10 bis comma 13, D.L.vo 128 del 2015: l’introduzione
di vincoli interpretativi. 4. I rif‌lessi processuali dell’abolitio
criminis parziale; 4-1) L’abolitio criminis parziale nelle in-
dagini e nell’udienza preliminare. 4-2) L’abolitio criminis
parziale nei riti alternativi. 4-3) L’abolitio criminis parziale
nel giudizio di primo e secondo grado. 4-4) L’abolitio crimi-
nis parziale nel giudizio di legittimità. 4-5) L’abolitio crimi-
nis parziale nel giudizio di rinvio. 4-6) L’abolitio criminis
parziale nel giudizio di esecuzione. 5. Conclusioni.
1. Premessa
Finalizzato ad implementare la «certezza del diritto
nei rapporti tra f‌isco e contribuente» (1), il D.L.vo 5 ago-
sto 2015, n. 128 attua la delega contenuta negli artt. 5, 6 e
8 della L. 11 marzo 2014, n. 23 ed introduce nel corpo della
L. 27 luglio 2000, n. 212 (cosiddetto Statuto dei diritti del
contribuente) il nuovo art. 10-bis, il quale, enunciato nella
rubrica il dato sistematico della reductio ad unum dei con-
cetti di “abuso del diritto” ed “elusione f‌iscale”, che vengo-
no oggi ad essere def‌initivamente coincidenti (2), li def‌i-
nisce come «operazioni prive di sostanza economica che,
pur nel rispetto formale delle norme f‌iscali, realizzano
essenzialmente vantaggi f‌iscali indebiti»; la locupletazio-
ne così ottenuta verrà disconosciuta dall’amministrazione
f‌inanziaria, la quale determinerà «i tributi sulla base delle
norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato
dal contribuente per effetto di dette operazioni» (3).
Per il tramite della menzionata disposizione il legisla-
tore ha perseguito l’arduo compito di dissipare i molteplici
nodi interpretativi esistenti, per lo più dovuti all’assenza
di una disciplina penale positiva in tema di abuso del dirit-
to; assenza il cui diretto precipitato è stato l’esercizio sup-
pletivo da parte della giurisprudenza di funzioni – come
vedremo - paranormative, che ha «aperto nuove prospet-
tive ermeneutiche, producendo ulteriori forti incertezze
riguardo alla legittimità di comportamenti ritenuti in pas-
sato corretti» (4). L’ovvio riferimento è al recente revire-
ment della giurisprudenza di legittimità in favore della pe-
nale rilevanza dell’elusione f‌iscale (5) – ossia dell’impiego
strumentale di apparati giuridici, volto al perseguimento
di f‌inalità estranee a quelle previste dall’ordinamento, le
sole ad essere tutelate (6) - ed al conseguente arbitrario
ampliamento del novero delle condotte tipiche del delit-
to di dichiarazione infedele, previsto dall’art. 4, D.L.vo 10
marzo 2000, n. 74.
Le ragioni della ferma opposizione dottrinale (7) – ed,
a tratti, giurisprudenziale (8) - a siffatto orientamento
della Corte di cassazione sono state fatte proprie dal legi-
slatore, il quale ha innestato nel nuovo art. 10-bis, L. 212
del 2000 un’esplicita disposizione riguardante il versante
sanzionatorio – il comma 13 (9) –, ove si dispone, apertis
verbis, che «le operazioni abusive non danno luogo a fatti
punibili ai sensi delle leggi penali tributarie», ferma re-
stando l’applicazione delle sanzioni (10) amministrative
tributarie (11). Il dettato normativo sembra condurre ad
immediate conclusioni in merito all’intervenuta abolitio
criminis, sicché addentrarsi nel cuore del nostro tema – i
rif‌lessi processuali della norma appena menzionata – può
essere percepito come un’operazione lineare, scontata ad-
dirittura. Così tuttavia non è, poiché, sino ad oggi, è stato
lo stesso perimetro concettuale dell’“elusione f‌iscale” a
presentare conf‌ini vaghi (12), mutabili - e mutati – a se-
conda degli ondivaghi approdi della giurisprudenza.
2. L’elusione tributaria tra abuso del diritto e dichiara-
zione infedele: prof‌ili def‌initori
In ragione di quanto f‌inora osservato, la ricostruzione
del generale concetto di “elusione f‌iscale” – e di “abuso
del diritto” – risulta, dunque, essere un prius necessario al
f‌ine di meglio def‌inire, in primo luogo, i tratti propriamen-
te penalistici – sostanziali e processuali – del nuovo art.
10-bis, L. 212 del 2000 ed, in secondo luogo, i marcatori
differenziali rispetto al concetto di “evasione f‌iscale” (13).
Già si è osservato – con un buon margine di approssi-
mazione – come il minimo comune denominatore delle
condotte elusive sia dato dalla loro «maliziosità» (14), de-
rivante dallo sfruttamento da parte del contribuente delle
lacune del sistema tributario (15). L’elusività del compor-
tamento non si esaurisce, però, in tale carattere artif‌icio-
so; questo – che è condicio sine qua non della fattispecie
abusiva – deve essere accompagnato da un ulteriore requi-
sito: l’assenza di valide ragioni economiche, ovvero – a se-
guito dell’introduzione dell’art. 10-bis, L. 212 del 2000 – di
sostanza economica. Non devono, cioè, sussistere ragioni
giustif‌icatrici dell’operazione diverse dal risparmio d’impo-
sta (16) o, comunque, tale risparmio deve porsi quale «ele-
mento predominante o assorbente della transazione» (17).
Carattere artif‌icioso, da un lato, e assenza di ragioni
economiche diverse dal risparmio f‌iscale, dall’altro lato,
rappresentano un binomio inscindibile per la conf‌igura-
zione dell’elusione: in mancanza d’un risparmio d’imposta
non esiste “materia del contendere”. In assenza del carat-
tere artif‌icioso della condotta del contribuente, invece, si
è dinanzi ad un’operazione per nulla censurabile, dalla
quale deriva il cosiddetto legittimo risparmio d’imposta,
che si conf‌igura qualora al contribuente si prospetti la
scelta tra «diversi strumenti giuridici, tra loro fungibili e
aventi pari dignità di fronte al legislatore» (18). Infatti,
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non può essere a questi preclusa la scelta della via f‌iscal-
mente meno onerosa tra quelle che gli sono offerte, pur-
ché, ovviamente, siano osservate le modalità previste dal
sistema (19).
Così conf‌igurata l’elusione, appare chiaro come essa
miri ad evitare l’insorgenza dell’obbligazione tributa-
ria attraverso una serie di atti, sì artif‌iciosi e magari
«biasimevol(i) a livello morale» (20), che sono comunque
palesati all’amministrazione f‌inanziaria (21), alla quale si
rappresenta, pertanto, la realtà economica di riferimento.
Ed è in ciò che risiede il tratto differenziale rispetto all’e-
vasione: quest’ultima si conf‌igura qualora il contribuente
non cerchi di intervenire sul fatto imponibile, che esiste
nella sua integrità, bensì tenti di sottrarsi illegittimamen-
te all’adempimento degli obblighi f‌inanziari e sostanziali
connessi alla realizzazione di una determinata fattispecie,
attraverso un «vero e proprio nascondimento agli occhi
del f‌isco del presupposto dell’imposta» (22). In estrema
sintesi, dunque: se l’imposta evasa è un’imposta dovuta,
quella elusa è semplicemente pretesa (23).
2-1. (Segue): prof‌ili tributaristici e civilistici
Così def‌inito il dato sostanziale dell’elusione - e venen-
do ora ad esaminare le modalità attraverso cui si è voluto
contrastare detto fenomeno - deve osservarsi come, tradi-
zionalmente, si sia fatto ricorso alla tipizzazione norma-
tiva di un numerus clausus di condotte considerate elusi-
ve: così è stato con il D.L. 10 luglio 1982, n. 429, convertito
dalla L. 7 agosto 1982, n. 516 (24) – il primo esempio di
normazione antielusiva – ed in egual maniera si è proce-
duto con il D.L.vo 8 ottobre 1997, n. 357, che, per un verso,
ha abrogato la predetta norma e, per altro verso, ha intro-
dotto l’art. 37-bis, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (25).
Non si rinveniva, dunque, nell’ordinamento italiano,
un generale principio antielusivo e, parimenti, nemmeno
trovava spazio il generale divieto di abuso del diritto, inve-
ce canonizzato dalla giurisprudenza comunitaria: infatti,
mentre la dottrina civilistica italiana discuteva del tema,
nel corso del XX secolo, al solo f‌ine di individuare i limiti al
riconoscimento di un diritto soggettivo - limiti che si tra-
ducevano nell’esclusione della tutela «dell’esercizio dello
stesso (inteso dunque come facultas agendi) per f‌inalità
antisociali» (26)-, la Corte di Giustizia elaborava siffatto
divieto e lo elevava a principio generale dell’Unione (27),
dotato di eff‌icacia cogente e, pertanto, utilizzabile al f‌ine
di disapplicare la contrastante normativa del singolo Stato
membro. E l’approdo assunto oggi a paradigma è dato dalla
nota “sentenza Halifax” (28) – scaturente dalla domanda
di pronuncia pregiudiziale sull’interpretazione della sesta
direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388/CEE, sulla
armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri in
materia di imposte sulla cifra di affari, ossia il sistema co-
mune di imposta sul valore aggiunto - con la quale la Corte
lussemburghese ha individuato una duplice condizione,
aff‌inché il comportamento del contribuente possa essere
def‌inito abusivo: innanzitutto, tale condotta - «nonostante
l’applicazione formale delle condizioni previste dalle per-
tinenti disposizioni della sesta direttiva e della legislazio-
ne nazionale che la traspone» - deve procurare un benef‌i-
cio f‌iscale la cui concessione risulta contraria all’obiettivo
perseguito dalle medesime disposizioni; in secondo luogo,
«deve altresì risultare da un insieme di elementi oggettivi
che lo scopo delle operazioni controverse è essenzialmen-
te l’ottenimento di un vantaggio f‌iscale. Come ha precisato
l’avvocato generale al paragrafo 89 delle conclusioni, il
divieto di comportamenti abusivi non vale più ove le ope-
razioni di cui trattasi possano spiegarsi altrimenti che con
il mero conseguimento di vantaggi f‌iscali» (29).
Trattasi di un’impostazione fatta propria dalle recen-
ti Sezioni Unite della Corte di cassazione (30), le quali
riconoscono la vigenza nell’ordinamento italiano di un
generale principio antielusivo (31), la cui fonte – si preci-
sa – non è da ravvisare nella giurisprudenza comunitaria
(32), bensì nella Carta costituzionale, delle cui disposizio-
ni – art. 53 commi 1 e 2 Cost., in particolare – il principio è
da considerarsi diretta derivazione. Così, alla condotta del
contribuente che non sia giustif‌icata da ragioni diverse dal
risparmio f‌iscale consegue il disconoscimento del rispar-
mio medesimo, poiché indebitamente ottenuto, e l’appli-
cazione dell’imposizione dovuta dal contribuente, laddove
la normativa fosse stata ordinariamente applicata.
2-2. (Segue): prof‌ili penalistici
In questo panorama si colloca la recente giurispruden-
za menzionata, che ha ritenuto l’idoneità dell’elusione
f‌iscale, qualora «corrispond(a) ad una specif‌ica ipotesi
[…] espressamente prevista dalla legge», ad integrare
la fattispecie punitiva della dichiarazione infedele, di
cui all’art. 4, D.L.vo 74 del 2000, ravvisando l’“infedeltà”
della certif‌icazione nell’utilitaristico e distorto impiego
«del complessivo sistema normativo tributario, che as-
sume carattere precettivo nelle specif‌iche disposizioni
antielusive» (33). Secondo la Corte, l’attribuzione di ri-
levanza penale alla sola elusione f‌iscale cosiddetta speci-
f‌ica – la quale trova il suo principale referente normativo
nell’art. 37-bis, D.P.R. n. 600 del 1973 – consente di supe-
rare i timori circa l’inosservanza del principio di legalità
e di tipicità della fattispecie, poiché, per un verso, questa
discenderebbe non dal generale principio di derivazione
giurisprudenziale, bensì dalla richiamata disposizione che
- generale norma di carattere antielusivo - detto principio
codif‌ica (34); ciò posto, la penale rilevanza dell’elusione
rappresenta un «risultato interpretativo "conforme ad una
ragionevole prevedibilità", tenuto conto della ratio delle
norme, delle loro f‌inalità e del loro inserimento sistemati-
co» (35); per altro verso, attribuirebbe all’ipotesi delittuo-
sa suff‌iciente determinatezza descrittiva (36).
Ulteriori sono le argomentazioni che i giudici di le-
gittimità aff‌iancano: in primo luogo, l’ampia nozione di
imposta “evasa” - intesa come differenza fra imposta ef-
fettivamente dovuta e quella indicata nella dichiarazione,
che l’art. 1 lett. f., D.L.vo n. 74 del 2000 fornisce -, la quale

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