I Motivi a delinquere

AutoreMichele Madera
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@1. Analisi del dato normativo

Scopo del presente studio è quello di tentare di costruire una accezione dogmatica dei motivi di cui all'art. 133 comma 2 n. 1 c.p., al fine di verificare se sia o meno plausibile una loro eventuale attinenza alla struttura del reato, contrariamente a quanto tutt'oggi normalmente si ritiene, laddove essi vengono «sistemati» soltanto nell'ambito dei parametri rilevanti per la determinazione della pena in concreto. In effetti, nell'ordinamento penale il riferimento ai «motivi» trova una collocazione certamente caratterizzante nell'art. 133 comma 2 n. 1 c.p., il che orienta l'interprete - almeno a prima vista - a situare la problematica relativa nell'ambito della teoria della commisurazione.

Strettamente collegato a tale ambito è poi il tema della pericolosità sociale, posto che - come è noto - l'art. 203 c.p. fa dipendere la pericolosità sociale dagli elementi dell'art. 133 c.p., ed in particolare - si deve ritenere - da quelli che vanno a comporre la capacità a delinquere. Anche in questo ambito i motivi a delinquere contribuiscono a delineare i tratti della personalità del soggetto che possono rilevare ai fini dell'individuazione del suo trattamento penale.

Pur tuttavia, nel codice penale il termine «motivo» può essere rintracciato in altre disposizioni, come nell'art. 24 comma 2 c.p.; nell'art. 61 n. 1 c.p.; nell'art. 62 n. 1 c.p. In altre norme si trovano poi i termini «fine» (art. 624 c.p.), «scopo» (art. 424 c.p.), «intento» (art. 401 c.p.) e similari, che attengono comunque alle motivazioni che animano il reo. I motivi in sostanza presentano una natura dualistica, oltre che ai fini dell'articolo 133 c.p., vengono a volte inseriti, sommariamente tipizzati, come circostanze aggravanti e attenuanti, sia comuni che speciali.

Da tutte queste finalità tipiche bisogna però tenere distinti i motivi a delinquere ex art. 133 c. 2 n. 1 c.p., che immancabilmente debbono rilevare quali indici della capacità criminale. Il fatto che essi costituiscano un elemento ontologico - ogni soggetto ha un suo atteggiamento, un suo modo di essere rispetto al fatto delittuoso 1 - spiega perché tale disposizione li evoca in modo generico.

Gli elementi cui fa riferimento il secondo comma dell'art. 133 c.p., compresi i «motivi», impongono in effetti la comprensione del comportamento di qualsivoglia autore di reato alla luce del suo personale vissuto e dell'ambiente sociale in cui è inserito, e quindi di tutti gli elementi che condizionano la sua complessiva personalità 2.

@2. La rilevanza dei motivi a delinquere nell'applicazione della pena e nella qualificazione tipologica del reato

Tendenzialmente, dunque, i motivi restano, per così dire, indistintamente confinati nella sfera psichica dell'agente, fino a quando il giudice, nel commisurare la pena, li prende in considerazione attribuendo loro un significato «positivo» o «negativo», a seconda della loro apprezzabilità. Solo una loro preventiva oggettivazione può trasferirne la rilevanza, come vedremo, all'interno della struttura del reato, o dei suoi accessori.

Riguardo al contenuto dei motivi a delinquere di cui parla l'art. 133, ciascuno di essi può essere rilevante e passibile di valutazione giudiziale, anche se inconsapevole, essendo connaturato agli impulsi ed ai fattori organici del soggetto 3.

Può essere utile puntualizzare che i criteri commisurativi dell'art. 133 c.p., compresi appunto i motivi a delinquere, presentano analogie ma anche differenze con l'istituto delle circostanze del reato. L'affinità con le circostanze risiede nel fatto che essi introducono determinazioni particolari del fatto, idonee ad indicare una maggiore o minore gravità dello stesso, mentre una prima differenza dalle circostanze riguarda la fondamentale caratteristica dell'art. 133, di consentire la determinazione della pena base del reato nell'ambito dei limiti minimi e massimi edittali, mentre - come è noto - la presenza di circostanze può legittimare il superamento di tali limiti. Ancora, il peso dei singoli elementi commisurativi nella quantificazione della pena non può essere preordinato a priori 4, mentre quello delle circostanze si situa entro limiti minimi e massimi prefissati dalla legge 5.

In ogni caso, però, il motivo rimane sempre carente di tipicità 6, legato all'autore e alla sua personalità 7.

Ne consegue che rileva solo la «libera» valutazione psichica del soggetto fatta dal giudice del caso concreto. Invece, una tipizzazione dell'atteggiamento interiore del soggetto ricondurrebbe la problematica nell'ambito della colpevolezza 8, o degli elementi oggettivi in quanto qualificanti la condotta o il fatto (art. 61 n. 4 c.p.), o degli elementi finalistici in quanto causa di risultati ulteriori 9.

I motivi-elementi della commisurazione restano del tutto interni all'agente, con la conseguenza della loro irrilevanza ai fini della determinazione della condotta criminosa per la qualificazione tipologica del reato 10.

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@3. Il pensiero dottrinale e quello giurisprudenziale

Secondo alcuni, gli elementi della capacità a delinquere, compresi i motivi a delinquere ex art. 133 c. 2 n. 1 c.p. (al pari di quelli attinenti alla gravità del reato ex art. 133 comma 1 c.p.), si inquadrano nel campo delle circostanze c.d. improprie del reato 11.

La natura circostanziale dell'art. 133 c.p. e dei suoi elementi risulterebbe dal fatto che la capacità a delinquere può avere un grado più elevato quando appare «coerente» alla personalità del reo, ed un grado minore quando il fatto criminoso appare come un episodio eccezionale, non radicato nella struttura della sua personalità 12.

Secondo un certo orientamento della giurisprudenza di legittimità 13, un ulteriore legame fra indici commisurativi e istituto delle circostanze resiederebbe nella figura delle circostanze generiche ex art. 62 bis c.p., nel senso che esse andrebbero desunte fondamentalmente dall'art. 133 c.p., specialmente dagli elementi di cui al secondo comma di detto articolo (capacità a delinquere).

Secondo alcuni indirizzi dottrinali, invece, gli indici di cui all'art. 133 c.p. prima parte (gravità del reato) e seconda parte (capacità a delinquere), possono rientrare negli elementi normativi 14 o elastici 15 del reato.

Un'altra indagine dottrinale è basata sul significato dell'espressione «motivi a delinquere» ex art. 133 c. 2 n. 1 c.p., e presenta una suddivisione tra chi propende per una interpretazione in termini psicologici, criminologici, e chi ritiene che il significato di «motivo a delinquere» dovrebbe essere ricercato nell'ambito della sistematica del diritto penale.

Nell'ambito dell'indirizzo psicologico-criminologico si sostiene la necessità di tenere distinti nel reato il concetto di causa da quello di motivi, che - come nel negozio giuridico - debbono ritenersi infiniti 16. Si ritiene ancora che una indagine psicologica basata solo sull'elemento soggettivo, dolo e colpa, apparirebbe insufficiente e andrebbe integrata con la ricerca dei motivi determinanti, come indicato nell'art. 133 c. 2 n. 1 c.p., al fine di integrare la tipologia del reato 17.

Nell'ambito poi della teoria generale 18 secondo la «dottrina pura del diritto» sorta in Germania nella prima metà del nostro secolo, le asserzioni giuridiche vanno viste in relazione alle norme da cui derivano. Il diritto è uno schema qualificato di comportamenti umani, e non di comportamenti oggetto di qualificazione, in quanto la scienza normativa, la giurisprudenza, non può essere di tipo naturalistico 19. Questo principio però è accettabile fino a quando il legislatore definisce le disposizioni normative o consente di definirle.

Rifacendosi a tali principi di teoria generale qualche autore precisa che non sono i moventi in quanto tali che rilevano sul piano giuridico, ma gli elementi oggettivi o finalistici tipizzati dalla norma. Per quanto attiene al motivo ex art. 133 c. 2 n. 1 c.p. il legislatore rinvierebbe ad una valutazione della situazione psichica dell'agente, affidata al giudice del caso concreto 20.

La giurisprudenza fornisce alcune definizioni del movente in base alla valutazione della situazione psichica del soggetto 21.

@4. Plausibili soluzioni del problema

A questo punto della ricerca possiamo delineare il concetto di motivo e stabilire la sua rilevanza.

Esso va affrontato tenendo presente che l'espressione «motivo a delinquere» è ispirata al linguaggio comune, in quanto nel modo comune di pensare la volontà umana è determinata, ma questa determinazione non è che autodeterminazione per motivi dell'autore 22. È a questo livello che si discute dell'ausilio delle scienze criminologiche e psicoanalitiche. Se da una parte si evidenzia l'impossibilità di ricavare contributi fruibili viste le impostazioni e soluzioni eterogenee e contraddittorie, tanto che si è giunti a ritenere che «non è necessario conoscere i motivi di un delitto», vi è chi ritiene che sono utili i risultati raggiunti da dette scienze in materia soprattutto di motivi inconsci riguardanti il soggetto imputabile. Sarebbero questi gli ambiti in cui potrebbe dare i suoi frutti una perizia disposta dal giudice ex art. 220 c.p.p., se non fosse, però, che tale norma vieta ogni indagine sulle qualità psichiche indipendenti da cause patologiche, la cui valutazione deve essere affidata alla scienza medica 23.

Rimane peraltro il fatto che la volontà si accompagna ad una decisione di agire 24, mentre il motivo conscio, od inconscio che sia, viene identificato ora con gli affetti 25, ora con gli istinti, impulsi, sentimenti innominati 26 - non qualificati e non codificati - variabili da soggetto a soggetto, meglio identificabili ricorrendo alla diagnostica medica 27 28.

Ora una volontà causa sui non sarebbe che arbitrium indifferentiae, non potendo non avere una sua origine. Infatti il comportamento umano è fatto non solo di atti coscienti, ma anche di motivazioni consce e inconsce, le quali precedono manifestazioni consce, apprezzabili razionalmente. Gli...

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