Giurisprudenza di merito

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@CORTE D'APPELLO DI LECCE Sez. dist. di Taranto 25 giugno 1999. Pres. Marsano - Est. Marrese - Imp. Valerio ed altri.

Inquinamento - Rifiuti - Discarica - Discarica abusiva - Accumulo di materiale all'interno di una cava - Utilizzazione o vendita del materiale - Irrilevanza - Configurabilità del reato - Fattispecie.

Integra gli estremi del reato di discarica abusiva l'accumulo di materiale all'interno di una cava (nella specie: loppa) per un lungo intervallo temporale e per notevolissime quantità, nella mera prospettiva della sua utilizzazione ai fini del recupero ambientale o della sua vendita. (D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915, art. 25) (1).

    (1) In argomento, v. Cass. pen., sez. III, 18 settembre 1996, Angeli, in questa Rivista 1997, 522 e Cass. pen., sez. III, 16 aprile 1994, Albani, ivi 1994, 1243. La citata pronuncia Corte giust. CEE, sez. VI, 25 giugno 1997, Tambesi, si trova pubblicata ivi 1997, 622 con nota di D. NICOTERA, La Corte europea di giustizia accoglie i ricorsi dei pretori: il concetto di residuo nella decretazione di urgenza in contrasto con la normativa europea.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. - Valerio Pietro e Sallustio Geremia, quali responsabili dell'esercizio della cava Mater Gratiae, Muni Nicola e Salvatore Ettore Mario, direttori dello stabilimento «Ilva Spa», rispettivamente fino al 30 maggio 1995 e fino al 30 novembre 1996, erano tratti al giudizio del Pretore di Taranto per rispondere, di concorso: 1) nella realizzazione e gestione di una discarica non autorizzata di rifiuti speciali provenienti dallo stabilimento «Ilva», utilizzando la cava Mater Gratiae per abbandonarvi notevoli quantitativi di loppa e di altre scorie di altoforno (artt. 110 c.p., 51 comma 3 D.L.vo 22/97, 25 D.P.R. 915/82); 2) nella decisione, nel consentire e non impedire lo sversamento abusivo di rifiuti in zona sottoposta a vincolo ambientale, la gravina Leucaspide (artt. 110 c.p., 1 L. 431/85); in Taranto e Statte.

Si costituivano parti civili i Comuni di Taranto e di Statte.

Con sentenza del 6 luglio 1998, depositata nei 60 giorni fissati ai sensi dell'art. 544 comma 3 c.p.p., il pretore assolveva gli imputati dal reato sub capo 1) perché il fatto non sussiste e da quello sub 2) per non averlo commesso; rigettava le domande risarcitorie avanzate dalle parti civili.

In ordine al capo n. 1), dalla relazione peritale redatta in sede di incidente probatorio si evidenziava, tra l'altro, che dopo l'inizio, avvenuto nel maggio 1963, da parte dell'«Italsider» della coltivazione della cava Mater Gratiae per ha. 175 circa, portata a ha. 195 negli anni '70, la «Nuova Italsider Spa» aveva presentato nel 1985 domanda di autorizzazione alla coltivazione della cava alla regione Puglia, il cui piano prevedeva una prima fase di sbancamento su un fronte largo m. 250, lungo m. 750 e profondo m. 30, una successiva fase che importava l'incremento della profondità a m. 51; inoltre, in una fase finale dell'utilizzo della cava, una parte sarebbe stata destinata a discariche «tipo B» e «tipo C», la parte restante interessata da recupero ambientale, con l'utilizzo di miscele di loppa ed altre scorie, nonché il recupero a verde. Tale progetto è attualmente valido e vincolante.

Quanto alla tipologia di materiale depositato nella cava, mentre alcuni testi (Fallone S. e Carone V.) avevano parlato di scarichi di materiali anche diversi dalla loppa (il primo, in particolare, di residui di lavori edili), le indagini svolte dal C.T.U. Luparelli - esecutore di carotaggi in vari punti dei cumuli di loppa, fino a m. 15 di profondità - avevano evidenziato la presenza di sola loppa, materiale non inquinante, ma inerte, «quotato» nella borsa valori di Bari, per cui, considerava il pretore, scarichi di tipo diverso andavano ritenuti occasionali ed effettuati all'insaputa della direzione dello stabilimento.

In relazione alle modalità di coltivazione della cava e del suo recupero ambientale, il medesimo primo giudice considerava provato che la cava fosse in corso di coltivazione, come lo stoccaggio - iniziato nel 1986 - della loppa nella prospettiva del recupero ambientale, anche in considerazione della rilevante quantità di materiale da accumulare (circa 7 milioni di metri cubi).

Inoltre, la loppa, oltre che accantonata nella cava Mate Gratiae per poi essere usata nel ripristino ambientale, veniva anche venduta quando ve ne fosse richiesta o utilizzata in altre opere (come era stato per il molo di S. Cataldo e per quello polisettoriale).

Premesso che si ha discarica abusiva quando l'accumulo dei rifiuti è ripetuto e con tendenziale carattere di definitività, il deposito di loppa nella cava Mater Gratiae non integrava - per il pretore - il fatto della discarica abusiva: a) l'art. 6 n. 3 D.L.vo 22/97, nel definire come «deposito temporaneo» il quantitativo di «rifiuti non pericolosi» non superiori a 20 metri cubi presuppone la classificazione a priori di rifiuto del materiale depositato, mentre la loppa non è tale e lo diviene solo quando se ne accerti il definitivo abbandono; b) l'«Ilva» non si era mai espressa, circa la cava in parola, per la definitività dell'abbandono, ed anzi l'autorità regionale aveva espressamente autorizzato il recupero ambientale anche attraverso tale materiale e, per l'area coltivata a cava, una parte soltanto (gli argini) dovevano essere costituiti da loppa e scoria di altoforno; c) la loppa era depositata in via provvisoria nella cava e ne avveniva il riciclo all'interno di essa (sui cumuli non v'era vegetazione spontanea, come sarebbe dovuto essere se fosse definitivamente abbandonata), perché venduta; pertanto, né la contemporaneità dei lavori di coltivazione con quelli di recupero ambientale, né il fatto che lo scarico non fosse avvenuto sotto controllo tecnico, sotto precise condizioni ed in zone ben determinate - come aveva sostenuto il P.M. - potevano far concludere per la definitività dello scarico; d) l'enorme quantità di materiale stoccato e la lunghezza del periodo di stoccaggio, che pure potrebbero far ritenere la definitività del deposito, andavano interpretate nel quadro complessivo del ciclo produttivo «Ilva», che richiedeva la coltivazione Page 772 di cava di enormi dimensioni, attese le sue elevate necessità di calcare; anche la cava, nella prospettiva del recupero ambientale richiedeva enormi quantità di loppa; pertanto, anche il lungo intervallo tra deposito ed utilizzazione - il quale si riduce in quanto la loppa veniva anche venduta - non può significare definitività dell'abbandono; il deposito non aveva generato comunque problemi di inquinamento.

In data 21 ottobre 1998 il P.M. presso la Pretura circondariale di Taranto ha depositato atto d'appello con richiesta di condanna degli imputati in ordine al capo n. 1) dell'imputazione: la loppa e gli altri quantitativi minori di materiali similari sono rifiuti speciali e nel contempo oggetto di commercializzazione; occorreva pertanto stabilire se l'accantonamento fosse stato effettuato a titolo provvisorio e temporaneo oppure definitivo; i criteri da tempo individuati dalla S.C. per distinguere consentono - per l'appellante - di ritenere trattarsi di scarichi definitivi: l'enorme quantità di loppa depositata; le commercializzazioni estremamente modeste e rade; la messa a dimora protratta, anche tuttora, per lunghi periodi di tempo; per quantitativi ben più modesti depositati in altre cave dall'«Ilva», questa aveva parlato di «discarica» di rifiuti.

Per commercializzare la loppa accumulata occorrerebbero parecchi anni, mentre la sua commerciabilità non comporta l'automatica riconducibilità in categoria diversa da quella di rifiuto.

Non era ipotizzabile che la loppa fosse stata depositata allo scopo del recupero della cava esaurita, sia perché le stesse allegazioni difensive fanno riferimento alla messa a dimora nella prospettiva della successiva vendita, sia perché l'ipotesi del risanamento contrasta con le modalità e condizioni del provvedimento regionale di autorizzazione alla coltivazione della cava.

In data 18 maggio 1999 nell'interesse degli imputati è stata depositata memoria con la quale, oltre a dedursi l'inammissibilità dell'appello pubblico e l'inidoneità dell'appello del solo P.M. a comportare l'accoglimento delle pretese risarcitorie delle parti civili, si resiste nel merito dell'impugnazione e si chiede la conferma della prima sentenza.

Celebrato in data odierna il giudizio d'appello, la Corte, dopo la trattazione di questioni preliminari e dopo la discussione (per le conclusioni di P.G., parti civili e difesa degli imputati), ha pronunciato sentenza.

MOTIVI DELLA DECISIONE. - L'appello pubblico è ammissibile. Esso - come si è visto - è stato depositato il 21 ottobre 1998. Se all'appello del P.M. non fosse applicabile la disciplina della sospensione dei termini processuali nel periodo feriale (art. 2 L. 7 ottobre 1969 n. 742), esso sarebbe tardivo. Infatti, scaduto il 4 settembre 1998 il termine di 60 giorni indicato dal pretore ex art. 544 comma 3 c.p.p. per il deposito della motivazione, se il P.M. avesse avuto l'onere di impugnare nei 45 giorni decorrenti da tale data, col 19 ottobre 1998 si sarebbe irrimediabilmente consumato il relativo potere. Diversamente, se la sospensione dei termini nel periodo feriale opera anche nei confronti dell'ufficio pubblico, l'impugnazione poteva essere proposta a far data dal 16 settembre 1998, con la conseguenza...

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