Giurisprudenza di merito

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@CORTE DI APPELLO DI BOLOGNA 31 luglio 1999, n. 882. Pres. Mirone - Est. Ferretti - Sandri ed altra (avv. Ferrandino) c. Consolini ed altri (avv. Arnone).

Parti comuni dell'edificio condominiale - Sottotetto - Perti nenza - Condizioni - Utilizzazione come vano autonomo da parte di tutti i condomini - Natura di bene comune - Presunzione - Sussistenza - Condizione.

Il sottotetto di un edificio può considerarsi pertinenza dell'appartamento (o degli appartamenti) sito all'ultimo piano solo quando assolva alla esclusiva funzione di isolare e proteggere l'appartamento stesso dal caldo, dal freddo e dall'umidità mediante la creazione di una camera d'aria, non anche quando abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l'utilizzazione come vano autonomo (deposito, stenditoio, ecc.). Pertanto, in quest'ultima ipotesi l'appartenenza dev'essere determinata in base al titolo, ed in mancanza, poiché il sottotetto non è compreso nel novero delle parti comuni dell'edificio essenziali per la sua esistenza (quali il tetto, il muro maestro, il suolo ecc.) o necessarie all'uso comune, la presunzione di comunione ex art. 1117 n. 1 c.c. si rende applicabile solo quando il sottotetto risulti oggettivamente destinato, anche soltanto in via potenziale, all'uso comune o all'esercizio di un uso comune. (C.c., art. 817; c.c., art. 1117) (1).

    (1) Insegnamento costante. V. in tal senso, Cass. 7 febbraio 1998, n. 1303, in questa Rivista 1998, 385; Cass. 9 ottobre 1997, n. 9788, ivi 1997, 973 e Cass. 29 ottobre 1992, n. 11771, ivi 1993, 372.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. - Con atto di citazione notificato il 3 luglio 1989 Consolini Gino, Chiarotti Agnese, Ferri Orazio, Giordani Anna Rosa, Levoni Sergio e Simoni Gina, proprietari di appartamenti dell'edificio sito in Anzola Emilia, via Emilia 31, convenivano in giudizio innanzi al Tribunale di Bologna Tondini Quinto e Ossani Santina, proprietari di un appartamento posto all'ultimo piano, e chiedevano accertarsi che il sottotetto dell'immobile, del quale i convenuti si erano impossessati collegandolo direttamente all'abitazione di loro proprietà, era bene comune e, conseguentemente, condannarsi gli stessi a rimuovere le opere murarie effettuate.

I convenuti si costituivano in giudizio e si opponevano alle domande, sul rilievo che il sottotetto era una pertinenza del loro appartamento.

Disposta ed espletata una consulenza tecnica, l'adito Tribunale di Bologna con sentenza in data 15 ottobre 1996, rilevava che, dalla descrizione della porzione immobiliare fatta dal consulente d'ufficio, emergeva che il sottotetto, «lungi dall'espletare una funzione di isolamento e protezione delle unità immobiliari sottostanti, era certamente idonea per dimensioni, struttura e accessibilità (attraverso una botola del vano scale), ad essere adibita, potenzialmente, ad un servizio di interesse comune a tutti i condomini, talché si rendeva applicabile la presunzione di appartenenza condominiale dello stesso, ex art. 117 c.c.», anche perché già in passato nel vano erano stati collocati due recipienti destinati all'accumulo di acqua da utilizzarsi da parte dei condomini. Accoglieva, pertanto, le domande attrici e condanna i convenuti al ripristino del vano sottotetto e a restituirlo, interamente, all'uso comune.

Contro la sentenza interponevano appello Sandri Sergio e Fregni Oriella, successori a titolo particolare del diritto controverso, avendo acquistato l'appartamento da Tondini Quinto e Ossani Santina con atto del notaio Parisio in data 3 aprile 1996.

Sostenevano gli appellanti, con un primo motivo, che, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, «di norma, il sottotetto è pertinenza dell'appartamento posto all'ultimo piano dell'edificio, e che solo in via eccezionale può costituire parte comune, come quando ciò risulti dal titolo e da una diversa destinazione». E che, nella specie, il vano aveva l'esclusiva funzione di camera d'aria a protezione dell'ultimo piano, come affermato anche dal Ctu, posto che al suo interno era vietata la permanenza di persone, a ragione dell'altezza di gronda (mt. 0,92), ed era privo di aria e luce.

Con un secondo motivo rivendicavano la legittimità, quali proprietari del sottotetto, delle aperture praticate sul tetto.

Gli appellanti concludevano come in epigrafe. Gli appellati si costituivano in giudizio e chiedevano il rigetto del gravame con il favore delle spese.

La causa era quindi posta in decisione.

MOTIVI DELLA DECISIONE. - L'appello non è fondato. Giova ricordare che il costante insegnamento, più recente, del Supremo Collegio è nel senso che il sottotetto di un edificio può considerarsi pertinenza dell'appartamento (o degli appartamenti) sito all'ultimo piano solo quando assolva alla esclusiva funzione di isolare e proteggere l'appartamento stesso dal caldo, dal freddo e dall'umidità mediante la creazione di una camera d'aria, non anche quando abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali da consentirne l'utilizzazione come vano autonomo (deposito, stenditoio, ecc.); che, pertanto, in questa ultima ipotesi l'appartenenza dev'essere determinata in base al titolo, ed in mancanza, poiché il sottotetto non è compreso nel novero delle parti comuni dell'edificio essenziali per la sua esistenza (quali il tetto, il muro maestro, il suolo ecc.) o necessarie all'uso comune, la presunzione di comunione ex art. 1117 n. 1 c.c. si rende applicabile solo quando il sottotetto risulti oggettivamente destinato, anche soltanto in via potenziale, all'uso comune o all'esercizio di un uso comune (Cass. 29 ottobre 1992 n. 11771; 9 ottobre 1997 n. 9788, in Guida al diritto, 1997, n. 43, pag. 78; 7 febbraio 1998 n. 1303, ivi 1998, n. 14, pag. 58).

In punto di fatto, dalla indagine tecnica espletata è stato accertato che:

- la copertura a falde inclinate, a quattro acque, del tetto dell'edificio, rende il vano sottostante come «dotato di discrete altezza: mt. 0,92 in gronda e mt. 2,92 in colmo»; Page 274

- il solaio di calpestio del sottotetto è praticabile, come, per altro, emergeva chiaramente dalle fotografie allegate alla relazione del consulente;

- sul menzionato piano di calpestio erano stati collocati due recipienti destinati a contenere l'acqua, proveniente da un pozzo artesiano, occorrente ai bisogni dei condomini, prima della realizzazione dell'acquedotto comunale;

- nel sottotetto era stata altresì collocata la centralina condominiale per la ricezione televisiva;

- all'interno del vano medesimo si trovavano dei diaframmi murari costituenti «la ovvia prosecuzione dei muri maestri interni destinati a sostenere il coperto, nonché a stabilizzare il reticolo murario principale»;

- al sottotetto era possibile accedere soltanto attraverso una botola, raggiungibile mediante «una scala provvisionale», e collocata nella parte sovrastante l'ultimo ballatoio delle scale comuni;

- infine, attraverso un abbaino, dal sottotetto si accedeva al tetto comune.

Precisava, inoltre, il consulente che, nei rogiti di compravendita, il vano de quo non era indicato tra le parti comuni.

Orbene, come rettamente ritenuto dai primi giudici, tutte tali circostanze di fatto escludono, da un lato, che il vano in questione possa essere considerato pertinenza dell'appartamento dell'ultimo piano, in quanto, per le descritte sue dimensioni in altezza e consistenza del solaio, che consentivano la deambulazione su tutta l'estensione di esso, non era destinato soltanto ad una funzione di isolamento e di protezione dell'appartamento sottostante dal caldo e dal freddo; dall'altra, come qualificato dallo stesso ctu, il quale l'ha definito «granaio», ovverosia «locale con prevalente destinazione da uso deposito promiscuo», il vano medesimo era stato destinato dal costruttore prima, con la collocazione in esso dei serbatoi per la provvista d'acqua, e poi dai condomini tutti con l'installazione, da tempo immemorabile, della centralina televisiva, ad uso comune di tutti i condomini. La stessa ubicazione della botola di accesso al sottotetto, posta nel pianerottolo dell'ultimo piano e la presenza dei muri maestri interni destinati a sostenere il manto di copertura, si pongono a conferma del convincimento del tribunale.

L'illiceità delle aperture praticate sul tetto discende dall'accertata illegittimità dell'impossessamento del vano da parte dei coniugi Tondini-Ossani.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. (Omissis).

@CORTE DI APPELLO DI NAPOLI Sez. III, 13 gennaio 1999, n. 20. Pres. ed est. Iacono - Quinterno (avv. De Tilla) c. Soc. F.3.I. (avv. Maione) e Soc. Rovac (n.c.).

Procedimenti sommari - Convalida - Per finita locazione - Intimazione di licenza o sfratto - Mancata costituzione delle parti - Riassunzione - Ammissibilità - Esclusione.

Nella procedura di intimazione di licenza o di sfratto per finita locazione, la riassunzione, seguita a mancata costituzione delle parti, non è possibile. (C.p.c., art. 83; c.p.c., art. 662) (1).

    (1) In argomento v. le citate Cass. 18 giugno 1988, n. 4171; Cass. 24 marzo 1983, n. 2082 e Cass. 29 ottobre 1960, n. 2935, tutte riportate in massima sub art. 662 del Codice di procedura civile commentato con la giurisprudenza, Ed. La Tribuna, Piacenza 1999.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. - Con atto di licenza per finita locazione e citazione per la convalida, notificata il 26 ottobre 1992, la srl F.3.I., premesso di essere proprietaria dell'appartamento sito in Napoli alla via Caravaglios, 36, (fabb. B), scala B, piano V, int. 12; di avere concesso in locazione detto appartamento alla Rovac srl, in persona dell'amm.re sig.ra Marina Rossi, con contratto del 2 gennaio 1985; che tale contratto prevedeva la facoltà per il conduttore di concedere l'appartamento in uso gratuito per abitazione a propri dipendenti; che alla scadenza dell'1 gennaio 1989 si era rinnovato sino all'1 gennaio 1993; che la Rovac srl comunicava all'istante che l'appartamento era stato concesso in locazione per uso abitativo alla sig.ra...

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