Giurisprudenza di merito

AutoreCasa Editrice La Tribuna
Pagine187-193

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@CORTE DI APPELLO DI NAPOLI Sez. VI, 16 dicembre 1999. Pres. Ingala - Est. Giannelli - Imp. Della Corte.

Reato - Estinzione (Cause di) - Prescrizione - Reato continuato - Ambito di efficacia dell'art. 158 c.p. - Individuazione.

La sentenza con cui il giudice riconosce il vincolo della continuazione tra più violazioni ha natura costitutiva, ed opera, pertanto, ex nunc. Consegue a tanto che il disposto dell'art. 158 c.p., nella parte in cui disciplina i rapporti tra l'istituto della prescrizione e quello del reato continuato, si limita a fissare il dies a quo per il computo dei termini di cui agli artt. 157, 159 e 160 c.p. per i successivi gradi del giudizio, e certamente non può derogare alla regola dell'art. 129, 2° comma, c.p.p. quanto alle fattispecie di reato già estinte per intervenuta prescrizione al momento dell'emissione della sentenza che riconosce la continuazione tra reati. (C.p., art. 158) (1).

    (1) In argomento si vedano Cass. pen., sez. I, 4 marzo 1998, Silvestro, in questa Rivista 1998, 731 e Cass. pen., sez. III, 5 dicembre 1990, Trinchero Gian, ivi 1991, 875.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE. - Avverso la decisione di cui in epigrafe interpose appello l'imputato, il cui difensore, con un primo motivo di gravame, chiese l'assoluzione del proprio assistito, sul rilievo che la qualifica di proprietario dell'immobile su cui insisteva il manufatto abusivo non poteva lasciar presumere la responsabilità del Della Corte; con un secondo motivo chiese la sospensione del procedimento penale, in quanto l'opera di cui si tratta era oggetto di venturo condono edilizio ex art. 38 L. 28 febbraio 1985, n. 47, e, sul punto, chiese rinnovazione parziale del dibattimento per le confacenti produzioni; con un terzo motivo chiese la revoca della sanzione amministrativa della demolizione del manufatto abusivo, trattandosi di materia riservata solo in via suppletiva all'Autorità Giudiziaria, e demandata, in primo luogo, a decisioni discrezionali della P.A.

Con un ultimo motivo, in considerazione delle esigenze abitative, e non speculative, che avrebbero mosso alla commissione dei fatti addebitatigli il Della Corte, la Difesa chiese la riduzione della pena al minimo edittale, previo giudizio di prevalenza delle pur concesse attenuanti generiche, anche in considerazione della modesta entità del fatto.

All'odierna udienza, svolta la relazione di rito, le parti hanno concluso come da verbale.

La sentenza impugnata dev'essere riformata nei sensi di cui alla richiesta della Procura Generale, come in udienza rappresentata.

La fondatezza dell'accusa, in ordine a tutti i reati, diversi da quello preveduto dagli artt. 1, 2 e 20 della legge 2 febbraio 1974, n. 64 (reato in ordine al quale dovrà discutersi in altro orizzonte) emerge dal contenuto dei verbali in data 15 e 28 aprile 1995; (Omissis) dalla deposizione del teste Totaro, sentito all'udienza del 1 febbraio 1999, che riprende e ribadisce il contenuto dei suddetti verbali di sopralluogo, ed apposizione di sigilli.

È certamente vero che la qualifica di proprietario non comporta "una via", una presunzione assoluta di responsabilità in ordine al delitto di cui all'art. 349 c.p., ma, nel caso di specie, è da osservare, senza tema di smentita, che il Della Corte rivestì anche la qualifica di custode giudiziario, e che la natura dell'opera "garantita" da quell'apposizione, nel senso che non doveva proseguire (violazione c.d. virtuale dei sigilli apposti), sustanziandosi nel compimento di lavori di costruzione cui il Della Corte non poteva non avere interesse, e che si protrassero per un tempo certamente apprezzabile, ma, di più, considerevole, deve, a rigor di logica condurre ad un doloso "disprezzo" nei confronti dell'atto dell'Autorità sequestrante, ed alla materiale prosecuzione dei lavori in esame. Emerge, di più, dalla deposizione del teste sentito alla udienza dell'1 febbraio 1999, che il Della Corte abitò il manufatto in violazione del disposto dell'art. 221 T.U.L.S.

Quanto alla richiesta rinnovazione del dibattimento, va appena osservato che la riserva di produzione di documenti atti a comprovare la esistenza di una pratica di condono ex art. 38 L. 47/85 è rimasta tale.

In ordine al motivo attinente alla richiesta revoca dell'ordine di demolizione del manufatto, dal combinato disposto dei commi 2 e 9 dell'art. 7 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, emerge una competenza alternativa circa la demolizione del manufatto, tra l'Autorità Giudiziaria e la Pubblica Amministrazione: l'ordine, quindi, è perfettamente legittimo.

La Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale si sono, sì, pronunciate "quasi" al riguardo, ma con attinenza al ben diverso tema dell'impossibilità giuridica di subordinare la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena - ai sensi dell'art. 165 c.p. - alla demolizione del manufatto, obbligo il cui adempimento potrebbe divenire, de facto, impossibile per diversa determinazione della P.A., ex art. 7, 9° comma, L. cit., a differenza da quanto accade ex artt. 165 c.p., 1 sexies, 2° comma, L. 8 agosto 1985, n. 431 (caso di subordinazione della concessione del suindicato beneficio all'ottemperanza effettiva all'ordine di ripristino dello stato dei luoghi in zona sottoposta a vincolo di edificabilità).

Quanto alla pena irrogata, certamente il primo giudice ha tenuto debito conto del modesto precedente penale - anche risalente nel tempo - a carico dell'imputato, concedendo le attenuanti generiche, e con tale concessione tenendo conto dell'assenza, anche, di intenti meramente speculativi, ma bene, non di meno, ha operato giudizio di equivalenza tra tali attenuanti e la aggravante di cui al secondo comma dell'art. 349 c.p., in considerazione delle rilevanti dimensioni dell'opera costruita in prosecuzione, nonostante l'avvenuta apposizione dei sigilli.

Nella determinazione della pena, tenuto presente quanto ora osservato, il primo giudice non è incorso in alcuna violazione del disposto degli artt. 132 e 133 c.p., onde, neanchePage 188 per questo verso, la sentenza impugnata merita le dedotte censure.

Nei confronti dell'appellante, in ordine alla contravvenzione di cui agli artt. 1, 2 e 20 della legge 2 febbraio 1974, n. 64, deve, la Corte, emettere declaratoria di improcedibilità dell'azione penale in quanto, mancando elementi tali da comportare il proscioglimento con una delle formule di cui al primo comma dell'art. 129 c.p.p. (gli elementi a carico si ricavano da quanto osservato rispetto alle ipotesi criminose per cui è conferma), il reato in esame è estinto per effetto dell'intervenuta prescrizione.

All'uopo si impongono delle considerazioni sui rapporti tra prescrizione e reato continuato.

L'art. 158 c.p. detta che, per il reato permanente o continuato, il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui è cessata la permanenza o la continuazione.

Orbene, nel presente procedimento, compare, fra i reati "satelliti" la contravvenzione di cui all'art. 221 del T.U. 27 luglio 1934, n. 1265, classico reato permanente, il cui esaurimento coincide, pertanto, per ormai consolidata giurisprudenza del Supremo Collegio, con la pronuncia della sentenza di primo grado (nella specie: 1 febbraio 1999).

E questo, pertanto, è - almeno in via tendenziale, per quanto, tra poco, si osserverà - il dies a quo quanto a tutti i reati sussunti in continuazione, salvi i rispettivi decorsi di cui all'art. 157 c.p. quanto a ciascuna delle violazioni.

Sennonché, come bene ha osservato il P.G. di udienza, la contravvenzione di cui agli artt. 1, 2 e 20 L. 64/74, per la quale è prevista la sola pena dell'ammenda, si prescrive, per il disposto degli artt. 157, 1° comma, n. 6, 160, 3° comma, c.p., entro il termine massimo di anni tre, decorso già verificatosi all'atto dell'emanazione della sentenza di primo grado.

Il primo giudice, secondo questa Corte, avrebbe dovuto, preso atto di quanto sopra, pronunciare declaratoria di inprocedibilità - al riguardo - dell'azione penale nei confronti dell'odierno appellante a'sensi degli artt. 129, 2° comma, 531, 1° comma, c.p.p.

Molteplici considerazioni conducono al convincimento suddetto questa Corte.

Anche se è, ormai, invalsa la terminologia "reato continuato", più corretto è, benvero, discutere di continuazione tra reati, perché sia ben chiaro che, nonostante la suddetta unificazione, le violazioni che vengono in rilievo non permettono deroghe al regime, né sotto l'aspetto strutturale (condotta, evento, nesso di causalità, elemento psicologico, etc.) né sotto l'aspetto processuale (di certo sarebbe inimmaginabile una deroga all'art. 192 c.p.p., ad esempio, per le violazioni satelliti!): il giudice, quindi, in ordine ad ognuna delle violazioni sussunte in continuazione, è vincolato alla statuizione dell'art. 129, 2° comma, c.p.p., appena la causa estintiva si verifichi.

Se così non fosse, e se, cioè, il c.d. reato continuato fosse davvero, e per ogni effetto, un reato unico, la disposizione dell'art. 158 c.p. non avrebbe alcun senso.

Invece, si tratta di una ben importante disposizione, che comporta la necessità di inquadrare la sottesa epifania dommatica.

La sentenza con cui i reati vengono unificati in continuazione ha carattere costitutivo, ed opera, pertanto, ex nunc; e solo ex nunc opera la possibilità - per i successivi gradi di giudizio di ancorare il dies a quo a quello dell'ultima violazione "componente", salvi, benvero, come detto, i decorsi, autonomi, di cui agli artt. 157 e 160 c.p. per ciascuna violazione.

Da ciò discende che, certamente, l'unificazione di cui si tratta non potrà mai far "rivivere" violazioni già estinte prima del momento riguardato dall'art. 405 c.p.p.: che, con pari certezza, non potranno esser sottratte alla prescrizione violazioni...

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