Giurisprudenza di merito

AutoreCasa Editrice La Tribuna
Pagine467-483

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@CORTE DI APPELLO DI NAPOLI Sez. VI, 5 gennaio 2001, n. 8453. Pres. Russo - Est. Giannelli - Imp. Petrenga ed altri.

Reato - Reato continuato - Reato associativo e singoli reati - Configurabilità della continuazione - Sussistenza - Riconducibilità dei reati fini ad un unico programma criminoso - Necessità - Esclusione.

È possibile unificare in continuazione il delitto associativo - nella specie quello di cui all'art. 416 bis c.p. - con i delitti di cui al fine, e ciò anche a prescindere dalla riconducibilità di questi ultimi ad un originario programma criminoso, attesa la natura permanente di ogni delitto associativo. (C.p., art. 416 bis; c.p., art. 81) (1).

    (1) Per un approfondimento giurisprudenziale sul tema, si vedano: Cass. pen., sez. VI, 15 ottobre 1999, Ingarao, in questa Rivista 2000, 426; Cass. pen., sez. I, 24 luglio 1992, Bono, ivi 1993, 748; Cass. pen., sez. I, 16 giugno 1992, Altadonna, ivi 1993, 484; Cass. pen., sez. I, 24 aprile 1991, Marandino, ivi 1992, 494; Cass. pen., sez. I, 16 maggio 1987, Musacco e Cass. pen., sez. I, 9 maggio 1987, Fiandaca, entrambe ivi 1988, 68. In dottrina, v. ESPOSITO FERDINANDO, Continuazione tra reato associativo e reato fine, ivi 1999, 293, in nota a Cass. pen., sez. VI, 14 maggio 1997, Giampà e Cass. pen., sez. VI, 24 ottobre 1997, Conoscenti.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE. - La sentenza del primo giudice deve essere riformata quanto agli imputati Zaccariello Nicola, Della Volpe Luigi, Monaco Luigi, Carobene Vincenzo, Gallucci Luciano e Di Martino Giovanni.

Zaccariello Nicola è deceduto nelle more del gravame del P.M.

Ex artt. 150 c.p., 129, secondo comma, c.p.p., va osservato come non si versi in un'ipotesi di assolutamente provata non reità, o assolutamente non provata reità (situazioni equiparate dalla Corte costituzionale con sentenza 16 gennaio 1975, n. 5, Giust. pen. 1975, I, 306), tale da permettere di ravvisare la possibilità - ex actis - di un proscioglimento in merito con alcuna delle formule di cui al primo comma dell'art. 129 c.p.p. (vedasi, all'uopo, dichiarazioni di Schiavone Carmine in udienza 2 febbraio 1999, foll. 20 ss.; Ucciero Adolfo, ud. 21 settembre 1998, foll. 71 ss. - foll. 242 ss. sent. di primo grado).

Deve, pertanto, nei confronti di Zaccariello Nicola, essere pronunciata declaratoria di improcedibilità per essere, il reato a lui ascritto, estinto per morte del reo.

Prima di esaminare le posizioni degli altri imputati, è opportuno sottolineare che in nessun gravame viene posta in discussione la sussistenza dell'associazione per delinquere di tipo mafioso entro la quale le posizioni dei singoli appellanti sono inscritte.

Solo quanto a Gallucci Luciano il difensore, in titulo scrive, fra l'altro, «assoluzione perché il fatto non sussiste», ma non svolge in alcun punto, e in alcun modo, tale richiesta, che rimane, pertanto, del tutto priva di motivi.

La sussistenza dell'associazione per delinquere di cui si tratta è, pertanto, coperta da giudicato endoprocessuale.

Ancora va premesso - stavolta quanto all'impianto argomentativo della sentenza di primo grado - che il tribunale ha bene, con scrupolo di ricerca e dovizia di elaborazione storico-giurisprudenziale, messo in luce tutte le caratteristiche che fanno confidare nell'attendibilità intrinseca delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia De Simone Dario, Schiavone Carmine, D'Alessandro Salvatore, Ucciero Adolfo, Quadrano Giuseppe, Rambone Adriana, Di Girolamo Carmine, Di Girolamo Giuseppe ed altri, per la linearità delle loro deposizioni, per la posizione di spicco all'interno dei gruppi malavitosi di cui parlano (il che permette di ritenere «qualificate» le loro accuse); al rilievo della militanza in gruppi contrapposti - il che esclude l'ipotesi della «congiura» - va appena aggiunto l'elementare carattere della plurimità convergente, che entra a far parte già dell'elemento obiettivo della credibilità, avverso il quale l'imputato ha onere di prova contraria (vedasi, comunque, per ampi riferimenti, i foll. 28-54 della sentenza impugnata).

Un problema che conviene qui trattare per agio d'esposizione, per la sua portata, comune alle posizioni di più imputati, è quello della possibilità di unificazione in continuazione del delitto di cui all'art. 416 bis c.p. - come di ogni delitto associativo - con i delitti di cui alla finalità (causa sceleris).

La Corte di cassazione non ritiene strutturalmente incompatibili il fenomeno associativo e quello della continuazione del delitto-mezzo con i delitti-fine.

L'atteggiamento psicologico di chi procede alla creazione di una struttura organizzativa dotata di una certa stabilità, strumentale alla realizzazione di un programma delinquenziale, non è ontologicamente dissimile dal disegno criminoso di chi realizza un reato continuato, posto che, in entrambi i casi, il bene - la violazione del bene - cui si ha interesse non appare realizzabile con un'unica azione od omissione, bensì attraverso più volizioni ispirate allo stesso desiderio

(Cass. 4 maggio 1989, CED 182383).

Ma alla compatibilità suddetta il Supremo Collegio pone un ben preciso limite. «Occorre, tuttavia, che i reati-fine siano stati concretamente determinati, sia pure genericamente, al momento della costituzione del vincolo associativo ed in ragione di esso; momento oltre il quale s'origina una radicale impossibilità nel ravvisare il nesso ex art. 81, secondo comma, c.p., per l'incompatibilità tra l'astrattezza del programma criminoso che connota - insieme alla immanenza del vincolo - il reato associativo e la concretezza del disegno criminoso che occasionalmente lega determinati delitti» (Cass., 30 gennaio 1992, Cass. pen. 1993, 1679; Cass., sez. V, 20 febbraio 1992, Cass. pen. 1993, 315; Cass., sez. I, 19 marzo 1992, Vollaro; Id., sez. I, 23 giugno 1992, P.M. e Forino; Id., sez. I, 26 ottobre 1992, La Montagna; Id., 26 settembre 1997, Conoscenti, CED 208717).

Quest'indirizzo fa un passo in avanti rispetto alla tesi del Supremo Collegio (Cass. 7 giugno 1988, Cass. pen. 1989, 1988; Id., 9 maggio 1986, ivi 1987, 1096; Id., 24 settembre 1985, ivi 1986, 879) che negava «sempre e comunque» laPage 468 possibilità di continuazione nei sensi che interessano, poiché «l'associazione per delinquere necessita di un accordo programmatico per la commissione di un numero indeterminato di delitti, laddove, per aversi reato continuato, occorre che tutte le azioni od omissioni siano comprese, ab origine, nell'unico disegno criminoso».

Ad avviso di questa corte territoriale, ambedue gli indirizzi del Supremo Collegio hanno posto in assoluto non cale la natura permanente di quella particolare categoria di reati plurisoggettivi costituita dal reato associativo, che dà luogo - secondo la dottrina preferibile - ad un ordinamento giuridico illegale.

Orbene, come in ogni ordinamento giuridico, elemento costitutivo ne é - fra l'altro - la condivisione delle norme, l'osservanza delle quali è necessaria per il raggiungimento del fine comune.

Invero, nella particolare struttura del delitto di cui all'art. 416 bis c.p., fra le norme da osservare, la finalità di commettere delitti non è - come avviene per i reati di cui agli artt. 416 c.p., 306 c.p., 74 T.U. 309/90 - indefettibile.

Non di meno, nel procedimento presente, la finalità sussiste, e, quindi, è importante risolvere il problema della possibilità di unificare in continuazione l'ipotesi dei delitti commessi a testimonianza del perseguimento - in concreto - della finalità scellerata con la genesi del sodalizio, e la sua evoluzione.

È indubitabile che l'effettiva commissione dei delitti di cui al fine, sotto il profilo processuale, e, più segnatamente, probatorio, dà all'indagatore riscontro di maggior «credibilità» e «resa» dal sodalizio; che il partecipe al sodalizio, con la commissione dei delitti di cui al fine, dà la «prova del nove» della propria adesione al programma dell'associazione, programma - e questo è da sottolineare - che non va visto solo nel momento genetico, in quanto il reato permanente - come si ricava anche dal testo dell'art. 382, secondo comma, c.p.p., in tema di flagranza, è sempre identico nella propria struttura obiettiva e psicologica, anche se, ovviamente, le esigenze dell'associazione mutano nel tempo e vengono salvaguardate con l'organizzazione di sempre nuovi delitti, anche di tipo ben diverso rispetto al momento genetico, senza che un'associazione, per ciò solo, diventi un'altra, e diversa, associazione.

Basta riguardare il partecipe al sodalizio che si propone, ad esempio, di commettere una estorsione: prima di commetterla, non si può negare che egli si proponga l'attività estorsiva nel quadro di una dimostrazione di fedeltà al sodalizio, e nel partecipare in tal modo al sodalizio egli si propone di commettere, ancora, il delitto associativo, ed, anche, l'estorsione.

Se si considera che l'indice massimo della continuazione è il nesso teleologico, non si può disconoscere che il reato permanente di partecipazione al sodalizio ex art. 416 bis c.p. è commesso (il reato permanente è, tecnicamente, commesso fino al proprio esaurimento, per cessazione spontanea, o per accidens) prima, durante e dopo l'estorsione; che quest'ultima viene commessa per «commettere», nei sensi esposti, il reato associativo. Ed è, questa, identità di disegno criminoso nel senso recepito dall'art. 81, secondo comma, c.p.

Non può addursi, di contro, che non può trovare applicazione l'aggravante di cui all'art. 61, n. 2, c.p.: né quanto al delitto di estorsione, poiché, ai sensi dell'art. 68 c.p., si applicherà la circostanza preveduta dall'art. 7 L. 203 del 1991, né quanto al delitto di cui all'art. 416 bis c.p., stante la riserva di cui alla prima parte dell'art. 61 c.p. Anzi, proprio quella consunzione (art. 68) o quella incompatibilità strutturale (art. 61, prima parte) testimoniano, sotto il profilo ontologico, di una finalizzazione ultro citroque dei due diversi modelli criminosi.

Si noti...

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