Giurisprudenza di merito

AutoreCasa Editrice La Tribuna
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@CORTE DI APPELLO DI CATANZARO Sez. I, 21 novembre 2005. Pres. ed est. Zampi - Imp. Nocita ed altro.

Reati fallimentari - Bancarotta fraudolenta - Sindacato del giudice penale sui presupposti della dichiarazione di fallimento - Limiti - Sindacabilità della regolarità della procedura fallimentare e dei presupposti oggettivi - Esclusione.

Nei reati di bancarotta il sindacato del giudice penale sui presupposti per la dichiarazione di fallimento può riguardare esclusivamente la sussistenza dei requisiti soggettivi richiesti per la fallibilità dell'imprenditore, ma non può estendersi né alla verifica dei presupposti oggettivi, costituiti in particolare dalla verifica dello stato di insolvenza, né al controllo sulla regolarità della procedura prefallimentare e fallimentare, che rimangono di esclusiva pertinenza del giudice civile e possono essere fatti valere soltanto con le impugnative interne alla medesima procedura fallimentare. (R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 216; R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 223) (1).

    (1) In argomento si veda altresì Cass. pen., sez. V, 28 ottobre 2002, Veruschi, in questa Rivista 2003, 56, secondo cui, in tema di reati fallimentari commessi dal fallito (nella specie, bancarotta fraudolenta documentale e per distrazione), la sentenza dichiarativa di fallimento, non facendo più stato nel procedimento penale, è di per sé insufficiente ad integrare la prova che l'imputato sia investito della qualità di imprenditore assoggettabile a fallimento e, quindi, di soggetto attivo dei reati anzidetti, per cui, ove tale qualità sia controversa, deve al riguardo intervenire un autonomo ed adeguatamente motivato accertamento del giudice penale il quale tenga conto, in particolare, oltre che di quanto previsto dall'art. 2083 c.c., anche della natura dell'attività svolta, dell'organizzazione dei mezzi impiegati, dell'entità dell'impresa e delle ripercussioni che il dissesto può produrre nell'economia generale; ciò in linea con le indicazioni contenute nella sentenza della Corte costituzionale n. 570 del 1989, dichiarativa della parziale incostituzionalità dell'art. 1 della legge fall., nella parte in cui prevedeva come connotazione distintiva del piccolo imprenditore il solo fatto che nell'attività commerciale non fosse stato investito un capitale superiore a lire 900.000. Da qui il principio per cui, in base alla disciplina dettata dall'art. 3, comma 4, c.p.p., recando la quale la sentenza irrevocabile del giudice civile fa stato nel processo penale solo quando abbia deciso una questione sullo stato di famiglia o di cittadinanza, deve escludersi che il giudice penale, investito della cognizione di reati fallimentari, di fronte alla rappresentazione, da parte dell'imputato, di elementi volti a rimettere in discussione la sua qualità di imprenditore, soggetto come tale al fallimento, possa legittimamente disattendere la suddetta rappresentazione, richiamandosi unicamente al carattere asseritamente vincolante della sentenza irrevocabile con la quale il fallimento è stato revocato.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO. - Con sentenza del 13 giugno 2001 il Tribunale di Catanzaro, in composizione collegiale, condannava Nocita Francesco e Corapi Saverio alla pena di due anni e sei mesi di reclusione ciascuno, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche, e alle pene accessorie di legge, per i delitti trascritti in epigrafe.

Emerge dalla lettura del fascicolo che dopo la dichiarazione di fallimento della Srl Khaleya, intervenuta in data 9 dicembre 1996, e dopo che nella relazione ex art. 33 legge fall. il curatore aveva evidenziato alcune irregolarità, erano state avviate indagini preliminari ad opera della locale procura della Repubblica: era in particolare risultato che la società, amministrata dal Corapi tra il 1990 e l'ottobre 1992 e successivamente dal Nocita, ma di fatto sempre gestita dal medesimo Nocita alla cui famiglia faceva capo il capitale sociale, nel corso del 1992 aveva data vita ad una serie di operazioni commerciali che avevano consentito il trasferimento di una vasta area edificabile sita in Satriano alla Srl I.F.I.M.M. (del pari appartenente alla famiglia Nocita) ad un prezzo di gran lunga inferiore al valore reale e comunque mai corrisposto; inoltre era risultato che svariate somme di danaro versate sui conti correnti della società erano state prelevate dal Nocita e dal Corapi per finalità diverse da quelle istituzionali e che ciò era stato reso possibile a seguito di un complesso contratto di general contractor stipulato con la Srl Sidera 88 di Minniti Franco, finalizzato a ricevere liquidità per avviare la promozione turistica e commerciale dell'area edificabile, ma in realtà utilizzato per acquisire somme dal Minniti, mai restituite; emergeva ancora che gli amministratori avevano tenuto una condotta diretta ad impedire il controllo da parte del collegio sindacale, non rispettando le richieste di questo e sottraendo alle necessarie verifiche la documentazione contabile, la quale si era presentata agli occhi degli organi fallimentari incompleta e carente in molte parti. A seguito di ricorso di alcuni creditori il Tribunale di Catanzaro aveva nominato un amministratore giudiziario in luogo del Nocita, revocando al contempo la carica sociale conferita a quest'ultimo dalla assemblea dei soci e, dopo pochi mesi, su istanza dell'amministratore giudiziario e in conseguenza di alcuni accertamenti disposti nell'ambito della procedura civile, aveva dichiarato il fallimento della società.

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All'esito delle indagini preliminari il P.M. aveva chiesto ed ottenuto il rinvio a giudizio di entrambi gli imputati.

Il tribunale affermava la penale responsabilità del Nocita e del Corapi partendo dalla dettagliata ricostruzione delle vicende societarie ed osservando che le ipotesi accusatorie avevano trovato piena conferma sia nella deposizione del curatore, sia nelle indagini bancarie svolte dalla guardia di finanza, sia nelle dichiarazioni rese dagli imputati: il Corapi, infatti, aveva ammesso di avere accettato la carica amministrativa su richiesta del Nocita e quale suo uomo di fiducia e di avere posto in essere le operazioni societarie incriminate su richiesta del coimputato, mentre il Nocita aveva confermato di avere gestito di fatto la società avendone un interesse diretto e personale.

Avverso la decisione proponevano tempestivo appello le difese di entrambi gli imputati.

Il Corapi, dopo avere premesso di avere ricoperto la carica amministrativa per fare un favore al Nocita, il quale dal canto suo aveva confermato di avere sempre gestito in prima persona la società, deduceva che la dichiarazione di fallimento era stata irritualmente pronunciata, in quanto sollecitata da un amministratore giudiziario già decaduto e senza la previa convocazione della assemblea, deducendo che tali violazioni inficiavano la sentenza civile e determinavano il venire meno del presupposto del contestato delitto di bancarotta; rilevava inoltre che mancava lo stato di insolvenza, alla luce dei modesti crediti insinuati al passivo e che anche le somme di denaro imputate a distrazioni erano in realtà state destinate al pagamento dei creditori.

Il Nocita, con un primo atto di impugnazione e poi con motivi aggiunti, dopo avere richiamato le medesime censure alla sentenza dichiarativa di fallimento, deduceva che la distrazione dei terreni edificabili non poteva ritenersi verificata poiché, trattandosi di atti simulati, essi non avevano prodotto effetti giuridici di sorta, essendo serviti soltanto per consentire al Nocita di fruire dei necessari finanziamenti attraverso una società non interessata dalle controversie in atto nei confronti della Khaleya, e che, inoltre, i beni sociali residui erano sufficienti per coprire il disavanzo economico e rilevava che le somme ricevute dalla società fallita erano state spese integralmente per fare fronte ai debiti sociali. Osservava ancora che il reato di cui all'art. 2623 c.c. era stato depenalizzato, che difettava il dolo di bancarotta fraudolenta documentale e che non era in nessun caso ravvisabile la continuazione, invocando la riduzione della pena inflitta e il riconoscimento dei benefici di legge. In via istruttoria chiedeva la parziale rinnovazione del dibattimento per la escussione del curatore fallimentare.

La corte di appello, dopo avere disposto la parziale rinnovazione del dibattimento per la rilevata necessità di procedere ad una perizia tecnico-contabile, alla odierna udienza, esaurita la discussione da parte del P.G. e dei difensori, i quali rappresentavano le rispettive conclusioni come da verbale, decideva il gravame dando lettura del dispositivo allegato al verbale di udienza.

MOTIVI DELLA DECISIONE. - Gli appelli sono in parte fondati e vanno accolti nei limiti più avanti indicati.

Gli appellanti hanno reiteratamente introdotto la problematica relativa alla correttezza delle valutazioni del tribunale fallimentare.

Il motivo è con evidenza fondato sull'orientamento giurisprudenziale che, in caso di bancarotta, assume che la sentenza dichiarativa di fallimento non costituisce un giudicato vincolante in sede penale, ma imponga al giudice penale non solo il positivo accertamento sulla sua pronuncia, ma anche, in caso di controversia, sul possesso in capo al fallito delle condizioni soggettive che ne legittimavano la dichiarazione (Cass., sez. V, 3 maggio 1999, n. 5544; Cass., sez. V, 11 aprile 1995, n. 3943; Cass., sez. V, 7 luglio 1998, n. 7961).

La tesi, invero, non è pacifica in giurisprudenza, in quanto un opposto orientamento, che affonda le proprie radici in epoca remota (Cass., sez. V, 7 gennaio 1983, n. 2099; Cass., sez. V, 14 settembre 1979, n. 10697; ecc.), assume invece che la declaratoria di fallimento, fermo restando l'obbligo di verificarne la giuridica esistenza, fa stato anche nel giudizio penale in relazione alla qualifica di imprenditore commerciale dell'agente e che la sua definitività costituisce un dato oggettivo...

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